Uno di quei dischi epocali. Una di quelle opere che hanno segnato, e continuano a segnare, il nostro tempo, il nostro immaginario, la musica che ascoltiamo. Il 9 marzo 2001 usciva il secondo album dei Daft Punk, “Discovery”, e avrebbe cambiato il mondo. Reduci dal fulminante debutto di “Homework”, album seminale, capace di cambiare le carte in tavola riassumendo e poi reinventando i canoni di house, techno, electro e funk (anche questo elettrificato e passato nelle macchine), Guy-Man e Bangalter si presentano dopo oltre quattro anni con un disco decisamente più pop. Dove “Homework” era viscerale, sincero, immediato, privo di calcoli e smussature (e per questo capace di stabilire un punto zero nella musica dance e nel modo di percepirne la forma e anche l’estetica), “Discovery” rivela subito le intenzioni mainstream con un singolo killer come “One more time”, uscito nell’autunno del 2000. La voce del compianto Romanthony, passata nel vocoder per dare quel senso robotico che permea tutto il disco (e naturalmente l’immagine del duo, da lì in poi), ci appiccica in testa un tormentone di quelli belli, di quelli che non stressano ma che ascolti volentieri anche mille volte al giorno, anche dopo 15 anni.
Ed è solo l’inizio. Se “Homework”, oltre a regalarci una hit globale come “Around the world”, aveva fato gridare al miracolo tutti i dj del mondo, tutti gli appassionati di elettronica, e aveva fatto voltare lo sguardo anche dei più attenti non-integralisti di rock e dintorni (siamo pur sempre a metà anni ’90, e la dance per molti è ancora “serie B”), con “Discovery” non si può più ignorare l’abilità estrema dei Daft Punk di saper scrivere vere (e splendide) canzoni: “Digital love”, “Face to face”, “Something about us” sono capaci a un tempo di recuperare suoni e sample dai ’70 e dagli ’80 in un ripescaggio di finissimo gusto estetico e filologico, e di proiettare il tutto in qualcosa di fantascientifico e futuribile. La frangia più club-oriented e i dj sono accontentati da tracce come “Crescendolls” e “High life”, pura hi-energy che incarna il concetto stesso di French Touch e lo supera a destra nel medesimo istante, e con quel diamante grezzo di “Too long”, chiusura perfetta del disco. E poi una perla come “Harder, Better, Faster, Stronger”, qualcosa che nasce come un divertissement e diventa la cosa più campionata degli ultimi vent’anni (vi ricordate “Stronger” di Kanye West, giusto per fare l’esempio più celebre?). E, per essere chiari, l’artista più campionato del ventesimo secolo è il James Brown di “Funky Drummer” (la batteria che è la genesi di jungle, drum’n’bass e stirpe sonora a seguire). Vi torna il parallelo?
A chiudere un cerchio perfetto, e a dare vera forza generazionale al tutto, il concept del secolo: “il 9.9.1999 c’è stato un incidente in studio, e quando ci siamo risvegliati eravamo dei robot”. Con questa leggenda, inventata di sana pianta, Guy-Manuel de Homen Christo e Thomas Bangalter danno vita al mito della creazione del loro personale universo. Da lì in poi, com’è noto, i Daft Punk non compariranno mai più senza i loro caschi, generando un’iconografia unica nella storia della musica recente. Il mito, appunto. Che continua tutt’oggi, sempre più elegante e con costanti update. Insieme alla creazione dei robot, i Daft affidano tutta la cura dei video del periodo a Leiji Matsumoto, asso dei manga e degli anime nipponici, insieme al quale costruiscono un vero film che, spezzettato, diventa i video dei singoli, e che, visto nella sua interezza, è il film Interstella 5555, una storia fanstascientifica dove il fil rouge (molto più di una semplice colonna sonora) sono appunto i brani di “Discovery”. Bingo. Matsumoto è una leggenda vivente, e le generazioni più giovani (al tempo), dall’Europa al Giappone, se lo ricordano per i pomeriggi davanti alla TV con Capitan Harlock e Galaxy Express 999.
Ma perchè “Discovery” ha cambiato il mondo? Perchè i Daft Punk hanno saputo creare un capolavoro degno di altri tempi, dei monumentali concept album anni ’70, con una freschezza capace di dare smalto e dignità alla musica dance, inserendosi in un contesto come quello che vedeva protagonisti, all’epoca, personaggi come The Chemical Brothers, Prodigy, Fatboy Slim, ma diventando star partendo da una prospettiva totalmente diversa: geografica, sociale, culturale, musicale e musicologica, e con una densità di contenuti unica. I Daft Punk, da “Discovery” in poi, sono diventati l’incarnazione del futuro, delle pop star del futuro, del 21esimo secolo; artisti-icone intoccabili, ologrammi, sagome viventi, un tutt’uno con i loro strumenti. Hanno radicalmente cambiato la percezione della dance, dell’elettronica, del pop, dello star system, in qualche misura. E soprattutto, sono stati (e sono) la dimostrazione che essere eleganti e pop allo stesso tempo è possibile.
Tanti auguri, allora, “Discovery”. 150 di questi anni!
09.03.2016