Gerald Simpson, inglese della Manchester dei tempi d’oro, è conosciuto in tutto il mondo per brani epocali come ‘Voodoo Ray’ e ‘Hot Lemonade’. E’ l’autore di ‘Emotions Electric’, inno generazionale che ha contribuito all’abbattimento di alcuni dei pregiudizi nei confronti della musica elettronica. E’ stato uno dei dj del celebre Hacienda e si è esibito facendo ballare Norman Cook (che pochi anni dopo sarebbe divenuto celebre come Fatboy Slim), Laurent Garnier e Mr. Scruff, all’epoca giovanissimi, solo per citarne alcuni. Per questo motivo e molti altri potrebbe sembrare strana la scelta di un nome d’arte come A Guy Called Gerald, semplice, efficace ma allo stesso tempo tremendamente umile. Lo abbiamo raggiunto prima della sua performance ad Atract per farci raccontare un sacco di cose interessanti.
Ciao Gerald, iniziamo parlando della città in cui sei nato ovvero Manchster. A cavallo degli anni ’80 e ’90 tutto ciò che è accaduto attorno a questo luogo ha avuto ripercussioni fondamentali nello sviluppo della scena club nel resto d’Europa e forse del mondo.
Ho iniziato a vivere musicalmente Manchester molto presto, si trattava dei primi anni ’80. In quel periodo c’erano tantissimi club in cui potevi ascoltare blues e jazz ed ebbi la fortuna di vedere Herbie Hancock dal vivo, un’esperienza che probabilmente mi cambiò la vita. Mi interessavo molto di musica e compravo parecchi dischi funk e soul. Una delle peculiarità della mia ricerca musicale è che ero interessato più ai musicisti che suonavano con gli artisti di successo che a questi ultimi. Quando compravo un disco che mi piaceva guardavo subito chi era il batterista, chi era il bassista e così via cercando poi i loro lavori da solisti. Sono sempre stato molto concentrato sull’aspetto tecnico della faccenda perché credo che solo quando si padroneggia completamente il proprio “strumento” lo si può portare ad un livello successivo.
E partendo da quel momento seminale che cambiamenti hai potuto testimoniare, prima nella città e poi a un livello più ampio?
Dopo l’ultimo periodo di gloria della black music arrivò l’ondata new wave e post punk. Non era musica che suonavo perché io in primis non ne ero rapito quando mi trovavo in pista. Tutte le volte che andavo a ballare e sentivo qualcosa che mi piaceva mi chiedevo come poterne trarne ispirazione in studio e, solo in un secondo momento, davanti al pubblico. Ero ossessionato dal capire come un artista aveva inserito una bassline, un clap e cose di questo tipo. Ciò che mi diede una boccata d’aria fresca fu sicuramente l’inizio del fenomeno hip hop e per questo spesso mi trovavo con alcuni amici del quartiere in cui vivevo e cercavamo di capire come produrre qualcosa di simile. Campionavamo delle basi funk e soul e iniziavamo delle jam lunghissime in cui MC e dj come me interagivano con il solo scopo di divertirsi. Non avevamo una visione di come si sarebbe sviluppato il futuro di quel progetto ma ricordo molto bene i soldi che spesi per avere tra le grinfie i primi campionatori. Mentre iniziavo a proporre in giro le mie prime demo i programmi radio come Picadilly avevano assunto una grande importanza, permettendo a tutti gli ascoltatori di sentire qualcosa di diverso. Certo, il nostro restava un fenomeno molto underground ai margini della programmazione, ma comunque ci fu concesso uno spazio ed ebbe grande risonanza. Ero partito entrando di nascosto nei locali o cercando qualche documento falso, come spesso accadeva in quelli anni, e finalmente stavo iniziando a produrre i miei primi dischi. Nel mentre era iniziata la “Summer Of Love” l’ecstasy era entrata nei club. Da Detroit arrivavano i primi lavori dei Cybotron, da Chicago le produzioni di personaggi del calibro di Mike Dunn e dalla Germania i Kraftwerk stavano segnando un periodo. Questi influssi mi colpirono tutti, uno dietro l’altro, ma non volevo sedermi in studio e replicare i loro lavori. Cercavo una techno come quella di Detroit che avesse l’anima del funk e del soul, l’eleganza di Chicago e uno sguardo verso il futuro. Sperimentavo molto e penso che questa continua ricerca mi abbia portato inconsciamente alla acid.
“Ero partito entrando di nascosto nei locali o cercando qualche documento falso, come spesso accadeva in quelli anni, e finalmente stavo iniziando a produrre i miei primi dischi”.

Parli di un fenomeno underground, termine abusato di questi tempi non trovi?
Per farti capire la differenza tra quel momento storico ed oggi ti racconto un breve aneddoto. Avevo ottenuto uno slot all’interno di un programma radio prestigioso dove venivano proposte le prime sonorità di quel genere. Ero entusiasta e quando mi recai con tutta la mia strumentazione negli studi il fonico della BBC mi chiese: “Scusa ma dove sono i musicisti?”. Non fu facile mostrargli una Roland 303 e spiegargli che quello strumento era il mio “batterista”.
‘Emotions Electric’ è stato un disco di rottura in un periodo in cui i BPM stavano salendo vertiginosamente e la musica nei dancefloor si stava facendo complessivamente “più dura”. Com’è nata una traccia così diversa e così lontana da quelli standard?
La storia che ti ho raccontato prima faceva parte del processo che ci portò a produrre questo brano, parlo al plurale perché assieme a me c’erano altri due producer e la voce di Paula (Paulette Blake n.d.r) che si sarebbe dovuta occupare di dare quel tocco di soul, di anima, che avrei voluto. Vivevo in modo abbastanza pesante il fatto che tutti considerassero quello che facevamo semplicemente rumore, anche perché la musicalità l’avevo sempre cercata sin dalle prime esperienze nei club blues e jazz. Lavorai molto su un ritmo lento che avesse un’armonia su più livelli. Registravo un take alla volta prendendo appunti sull’esatta sequenza che avrei dovuto utilizzare sulle macchine per riprodurre certi synth e strings e nonostante ciò fu tutto molto veloce e spontaneo. Mi occupai anche del testo del brano che voleva rappresentare come anche con la musica elettronica fosse possibile creare emozioni, sentimenti e legami. Non nego che quando il disco uscì non ebbe grande risonanza e solo quando questa faccenda della club culture crebbe gli venne riconosciuta una certa importanza.
Abbiamo esplorato un po’ della storia che ti ha reso celebre ma sarebbe interessante capire che visione ha un artista della tua esperienza sul presente della club culture.
C’è molto da dire, soprattutto se si considera l’aspetto della produzione. Molte persone spesso mi parlano di questo ritorno all’analogico, di questa ricerca del suono caldo del vinile ed in generale di tutto ciò che ruota alla musica del passato. Posso essere contento del fatto che molti giovani si stiano interessando alle cose che sono state fatte in minima parte anche da me, però mi aspetterei che qualcosa di nuovo nascesse da loro un po’ come successe a noi agli inizi. Oggi abbiamo a disposizione strumenti incredibili per produrre musica ma vengono sfruttati per produrre tracce che si uniformano a determinati standard. Raramente capita che qualcuno faccia un passo fuori dalla comfort zone, a quel punto viene guardato con sospetto ed interesse dai colleghi e se ciò che ha fatto funziona allora tutti salgono sul carro del vincitore. Così succede che il mercato viene saturato di musica sostanzialmente identica in un circolo vizioso che non serve a nessuno. La sperimentazione è una componente fondamentale dello sviluppo creativo, ognuno di noi dovrebbe trovare tempo per dedicarvisi provando ad alzare l’asticella, è economicamente rischioso e forse è questo il problema di tutta la vicenda.

Chiudiamo il cerchio venendo a stasera e a cosa hai in mente per il futuro.
Stasera proporrò il mio live set qui ad Atract dove ho avuto occasione di fare soundcheck poche ore fa. Mi piacciono gli spazi di questo tipo, mi ricordano il periodo in cui avevo appena iniziato a esibirmi in pubblico. Poi tornerò a Manchester e mi immergerò nuovamente in studio poiché a breve farò uscire una sorta di “Best Of” dedicato ai trent’anni della acid house. Sarà un lavoro importante ma allo stesso tempo molto stimolante, non vedo l’ora.
27.09.2017