Pensi al Belgio e ti viene subito in mente o la new beat di inizio anni Novanta o il Tomorrowland e l’intero carrozzone dell’EDM. Invece no, pensi al Belgio e hai davanti Alex Uhlmann, che non è proprio l’ultimo arrivato nel settore dell’intrattenimento. Sfogli la sua bio e ti ricordi che è stato il cantante dei Planet Funk e di David Morales, nonché direttore musicale di un talent di peso come The Voice.
Uhlmann, nei suoi Europei della musica, tiene alto il vessillo del Belgio col suo ultimo brano, ‘Never be the Same’, ovunque in uscita per l’etichetta berlinese Hoersenmusic e in Italia diffuso da Qui Base Luna. Un pezzo mainstream, per lui, che anticipa l’ep ‘Home’ prodotto da un certo Steve Lyon, uno che ha lavorato per gente come Depeche Mode e The Cure. Tra Londra, Berlino e Roma, tra studi di registrazione e business paralleli (nella capitale tedesca gestisce Futura, tra le cinque migliori pizzerie d’Europa), Uhlmann si dà un gran daffare a diffondere quello che per lui è “un brano sulla speranza e sulla liberazione”.
La vita è piena di sfide e difficoltà. Come trovare il modo di riflettere sull’importanza del lottare?
Con una canzone e con un obiettivo chiaro davanti, da centrare, che aiutino a superare le sfide e che posizioni la vita di ciascuno nella giusta prospettiva. Non saremo mai gli stessi ma non cadremo perché sappiamo per cosa abbiamo lottato. ‘Never be the Same’ è questo, è il mio ultimo singolo, realizzato con Luca La Morgia. Mi riferisco alle sfide che abbiamo quotidianamente, con questo brano, quelle che danno un senso alla vita. Questo, nonostante qualcuno possa pensare che, interpretando il testo, io mi riferisca alla pandemia e, no, non è così.
‘Home’ è un quasi album, un ep che andrà oltre i parametri. Come lo stai strutturando?
Con attenzione, affiancato da Steve Lion, con cui lavoro benissimo. Ci sono Moog e synth, in ‘Home’, ha un suono davvero curato. Per me rappresenta il focus, è la sintesi di come nascano le mie canzoni. Ho 40 anni e volevo qualcosa di mio, di personale. C’è la mia vena cantautorale, in questo progetto in cui flirto con l’elettronica. Ho vissuto a Londra e a Brighton e ho frequentato tante feste, così mi sono appassionato al genere, anche se provengo da una band indie rock. Ecco, me ne sono andato dal Lussumburgo perché aveva una scena… ridotta.
Planet Funk e David Morales rappresentano per te il passato o anche il futuro?
Abbiamo scritto un po’ di pezzi ed è stato solo l’inizio, con Dave. Il discorso Planet Funk è simile. Sono situazioni momentaneamente interrotte che possono riprendere.

Da ex direttore artistico di The Voice, gli artisti oggi hanno ancora davvero qualcosa da dire?
Lo spero. Ma io quel ruolo a The Voice l’ho inteso come un lavoro più che come una missione. È un altro passo che penso mi abbia arricchito come artista. C’è una cosa, però, che devo far notare: che gli artisti italiani parlano male di se stessi, c’è sempre nell’aria un po’ di negatività. E non va bene. La musica ormai ha un respiro internazionale e non provinciale e me ne accorgo stando spesso a Londra o a Berlino. Guardate cosa abbiamo vissuto con i Maneskin. Io i talent li vedo come realtà positive. Mi piace relazionarmi con quelli più giovani di me, tipo Gaia Gozzi, bravissima; perché mi ricordano tutti quasi un passaggio, una tappa di un importante percorso.
A Berlino, oltre alla musica, ti dedichi alla ristorazione: è tua una tra le cinque migliori pizzerie d’Europa. È un hobby? È una differenziazione in fatto di business?
È una passione. Si chiama Futura e l’ho fondata con mio cognato, Alessandro Leonardi. È stata nominata come la miglior pizzeria dell’anno nel 2019 per il Gambero Rosso e nel 2020 ha ottenuto anche i Tre Spicchi, dal Gambero Rosso. Ho visto molti e interessanti abbinamenti tra musica e cibo ma spesso alcuni legami sono un po’ forzati e prettamente legati al marketing. Per questo motivo penso che mio cognato sia un artista, lui fa le cose con passione. Abbiamo personalmente curato il design del locale cercando una scelta musicale con una propria identità. Chef e songwriter in fondo fanno la stessa cosa: creano. Resto però dell’idea che certi luoghi, come le discoteche, invece, siano deputati o meglio riservati al solo ballo. Sennò diventano altro. L’interazione social a tutti i costi dentro un club è fuori luogo. Il club è dove fai un viaggio musicale, un luogo dove poterti liberare e senza comunque cercare una trasgressione.
Un’esperienza all’estero sarebbe utile a tutti, giovani e meno giovani?
Assolutamente sì. Per me è stato fondamentale spostarmi di nazione in nazione. Ho vissuto non solo a Londra ma anche Parigi e Berlino. Lussemburgo è davvero piccolo, come stato, tuttavia è stata un’esperienza che mi serve anche oggi. Vorrei che seguisse i miei passi anche mia figlia, in fatto di trasferimenti.

In Italia ci sono manager bravi?
Pensavo a Marta Donà e ai Maneskin e di come è andata a finire. Esistono, quelli bravi, ma si sta riducendo l’offerta. Non è solo una questione di esperienza ma anche di costanza, metodo. Oggi ogni artista comunque deve fare un po’ il manager di se stesso. E anche un po’ l’imprenditore.
Il business discografico attuale sembra quasi non ti riguardi.
Già che ho firmato con una indie dimostra che io non amo la famosa storia del ‘facciamo un singolo e vediamo come va’. Non ho grandi aspettative dalla discografia. Sento di voler fare un percorso tutto mio, senza condizionamenti, senza costrizioni. E poi la discografia oggi è diventata altro; in fondo, negli ultimi anni, tutti noi abbiamo vissuto grazie ai live e molto meno grazie alla vendita di brani.
Parteciperai a diversi showcase in Italia, prossimamente?
Mi esibirò in luoghi che seguiranno le normative vigenti, che sono pochi. La formula del nostro live comunque mi piace: Luca La Morgia avrà una postazione con chitarre, computer, controller e io sarò al microfono.
24.06.2021