Una delle etichette italiane che stanno conquistandosi una credibilità nell’affollato panorama che orbita intorno al funk e alla disco è Apparel Music, che si riconduce al collettivo Apparel Wax. Con release di grande qualità, Apparel sta convincendo moltissimi dj e sta riuscendo nel ritagliarsi uno spazio preciso e un’identità forte proprio in quel territorio house che flirta con jazz, funk, disco e tutto ciò che è black. Un altro aspetto molto curioso e accattivante riguardo questo progetto è l’anonimato. Non ci sono i nomi degli artisti artefici delle tracce, non ci è dato sapere nulla su di loro e non sappiamo neppure se i pezzi nella stessa uscita sono tutti dello stesso autore oppure no; le tracce non hanno titolo ma solo i codici di ordine alfanumerico, come nei vinili: A1; A2, B1 e così via. Tutto è sempre inserito sotto il cappello collettivo di Apparel Wax e del suo iconico logo (lo vedete declinato nelle foto dell’articolo in varie modalità). Uno, nessuno, centomila Apparel, per citare Pirandello. Tra le realtà da tenere assolutamente nel radar per il 2019, abbiamo approfondito il discorso con il fondatore di AW. Naturalmente, non si fanno nomi.
Come ti è venuta l’idea di aprire una label, tempo fa, e poi come hai sviluppato questo progetto?
Diciamo che milito come dj da quasi una ventina d’anni; dopo una decina ho iniziato a produrre le prime cose interessanti e a uscire su etichette di nicchia come Multivitamins, avevo poi un progetto ideato insieme a mia moglie, si chiamava One Boy, in cui c’erano diversimusicisti jazz che interagivano sul mio dj set. Andava molto bene perché erano i primi tempi in cui esistevano queste sperimentazioni, e ricordo che durante una serata a Messina con me sul palco c’erano i fiati, un contrabbasso e di fatto una piccola orchestra. A fine serata improvvisarono ‘Caravan’ di Duke Ellington su un pezzo molto minimale, fai conto una di quelle produzioni che potevano essere, che so, Alex Under, quel genere di cose. E mentre ascoltavo tutto questo ho pensato di aver visto la luce, ho pensato “questo è ciò che devo fare!”. Così ho iniziato a registrare materiale e a contattare artisti come Tuccillo, Prostitunes, Ecko House, Elon, tutti producer che avevano pubblicato pezzi con la stessa attitudine, io la chiamo jazzy perché appunto non è proprio jazz ma ci gira intorno e ne assorbe il mood.
E hai aperto una tua etichetta.
Esatto. Con un tempismo perfetto, perché parliamo di quasi dieci anni fa, il momento peggiore in assoluto per la discografia, quegli anni di transizione in cui il vinile era morto e il digitale non aveva ancora preso così tanto piede. Da lì è nata Apparel Music e da quell’idea iniziale si è sviluppato tutto il processo che ha portato oggi ad Apparel Wax.
Ma non è stato un processo breve, o sbaglio? Cosa c’è stato negli anni di mezzo?
Per un periodo ho lavorato con Nachtbraker, un producer olandese del giro Detroit Swindle, a metà tra la nu-disco e la house. Con lui lavoravo ad una label di cui curavo tutta la parte artistica, mentre lui si occupava dell’A&R, e quando ci siamo separati avevo delle opzioni e delle idee davanti a me. Ed è stato il prequel di Apparel Wax perché mi ha aperto gli occhi su chi ero, sulla mia identità artistica e su tanti fattori che si sono poi allineatifacendo in modo che mi fosse chiara in testa la direzione che volevo avesse Apparel Wax.

Facciamo un passo indietro. Tu vieni da una zona d’Italia non proprio semplicissima per chi vuole lavorare nella musica nella maniera in cui fai tu.
Io sono di San Salvo, in Abruzzo, e a 18 anni mi sono trasferito a Milano per studiare Giurisprudenza. In quel periodo ho iniziato a cantare, avevo dei gruppi funk, ska, poi ho scoperto l’elettronica, in particolare trip hop, jungle, drum’n’bass, ho capito che quella era la mia strada e ho mollato tutto il resto.
Mi colpisce, di Apparel Wax, il fatto che in un momento storico in cui tutto si riduce sempre più al minimo, voi andate nella direzione opposta: fate house suonata e arrangiata con molti strumenti in anni in cui anche il pop si produce con tre suoni; fate delle uscite curate come dei mini album in un periodo in cui tuti pubblicano i singoli o addirittura una traccia per volta. Perché?
È un modus operandi che riflette la mia passione per il formato album, che mi ha sempre intrigato proprio perché non è “solo” un pezzo ma è un vero mondo, sonoro e non solo. Credo ovviamente che ognuno abbia i propri gusti, il mio è quello di creare una sintonia, l’intento è quello di riunire artisti che vngono da Paesi e realtà differenti ma sono accomunati da un’attitudine precisa.

Come vengono accolte le vostre produzioni? Mi sembra ci sia un forte interesse anche internazionale.
La chiave è stata quella di “togliersi”. C’è tutto un lavoro concettuale, direi filosofico, oltre a quello di business, che per me è figlio di una riflessione maturata ai tempi in cui ho lavorato con Nachtbraker. A un certo punto mi sono trovato a dover rilanciare il mio brand, quindi nel momento in cui ho pensato ad Apparel Wax ho pensato che tutta questa estetica dei “ghost producer”, tra virgolette perché lo intendo proprio in senso letterale, non dispregiativo, esisteva già ed era significativo per me porre l’accento sui brani, non su chi li produce. Anzi, è bello lasciare il dubbio su chi c’è dietro a una traccia ed eliminare il naming, il marketing sul nome. Ho ribaltato la prospettiva, mettendo in evidenza un nome collettivo, quello appunto dell’etichetta, e lasciando poi la curiosità in chi ci ascolta o ci compra di fare ricerca e cercare di scoprire di più. Ma per farlo non potevo usare un anonimo “various artists”, che sarebbe in teoria la verità, visto che le release di Apparel Wax sono degli EP o delle compilation.
Perché?
Le compilation che escono sotto il nome “various artists” vengono snobbate o trattate con meno riguardo degli artisti con un’identità, anche perché chi intervisti nel mucchio? Quindi pensare di mettere sempre tutto sotto il nome collettivo di Apparel Wax, ho pensato, avrebbe dato una forte identità al progetto e avrebbe lasciato quell’alone di mistero che crea aspettativa.
Infatti incuriosisce non poco. Io credo che “sparire” sia oggi spesso la scelta vincente. Non esserci, nel momento in cui tutti vogliono essere e ostentare. Funziona. Guarda i Daft Punk, i Radiohead, Liberato…
Esatto. Alla fine non conta tanto chi effettivamente è artefice del brano o dell’artwork, invece di pensare a mettere la firma credo sia più giusto cercare di creare qualcosa con un senso comune, un intento specifico. A volte c’è la tentazione di metterci questa firma, ma poi no, è inutile, fa cadere tutto il discorso.
È in qualche modo l’idea dietro a un progetto come quello di Banksy. Chi è davvero? È sempre la stessa persona? O c’è una linea dettata dall’ideatore e poi fisicamente messa in pratica da tutta una factory di collaboratori?
Proprio così. Ma andando ancora più indietro è il concetto di Andy Warhol, delle factory. Apparel Wax è a suo modo una piccola factory.
E lo si percepisce molto bene nella prossima release in programma.
Assolutamente. Uscirà a febbraio e sarà il frutto del lavoro di otto producer diversi, ma sfido chiunque a percepire la “mano” di tutti e otto. Sarà una specie di concept sugli anni ’90, dai tagli sui vocal al sound a tutto il resto.
04.01.2019