Sette giorni fa si spegnava Tim Bergling, la notizia faceva rapidamente il giro del mondo venerdì 20 aprile, in Italia erano circa le 19 quando hanno iniziato a circolare le prime voci, poi confermate. Inevitabilmente, si è scatenato tutto il meglio e il peggio che ci si può aspettare dalle reazioni collettive. Da un lato, molti ricordi – talvolta commoventi – di chi Avicii lo conosceva: colleghi, musicisti, artisti che avevano avuto a che fare con lui e a cui la figura di personaggi pubblici imponeva una presa di parola, anche semplicemente di circostanza (in molti casi non è stato semplicemente così). Dall’altro lato, le reazioni commosse dei fan, devastanti, laceranti, come sempre succede quando scompare un mito. La generazione cresciuta con la dance non ha visto grandi tragedie legate ai propri eroi, e di fatto Avicii è il primo dj popstar a scomparire prima dei 30 anni. Aggiungiamo che a differenza del rock’n’roll o dell’hip hop, l’EDM è un genere di musica la cui narrazione vuole degli eroi puliti, presentabili, sobri. I “buoni”, per dirla in modo cinematografico. Ecco, Avicii era la crepa in questo immaginario. Perché aveva squarciato il velo del perbenismo dietro cui si celano i problemi che tutti possiamo avere: non ha mai fatto mistero del suo rapporto con l’alcool, non lesinava contraddizioni, dubbi, drammi interiori nel significativo (oggi più che mai), doloroso e tenerissimo documentario ‘Avicii: True Stories’ dove emerge in modo netto il disagio di questo ragazzo di fronte a un’ansia da prestazione che non era roba per lui, che non lo faceva stare bene, che lo sconquassava ogni volta che doveva salire le scalette dei mainstage. Io non conoscevo Avicii, non ho mai avuto il piacere di scambiare nemmeno due chiacchiere con lui per un’intervista. Però quello che posso immaginare da ciò che ho visto e sentito in questi anni, è che questo ragazzo desiderasse – com’è lecito – moltissimo il successo. Un successo che si esprime, se sei un dj e un producer, sia scrivendo e producendo grandi pezzi che ti permettono di essere conosciuto, amato e apprezzato in tutto il mondo, sia in un’altra fase del tuo lavoro, che è quella delle serate, di suonare davanti a più persone possibili ogni sera. Per i dj i tour non sono pianificati come per le rockstar: non esiste il momento della scrittura dell’album e poi del tour e poi della lunga pausa. No. Un dj è sempre in giro. Sempre. E passare in pochi mesi da una manciata di serate all’anno, in club da 200 persone, a stadi e palazzetti pieni di gente che aspetta solo te, con numeri che vanno nell’ordine delle decine di migliaia di persone a sera, per quasi 300 sere l’anno, fa tremare le gambe anche solo a pensarlo. E può farti a pezzi.
Ieri la famiglia di Avicii ha diramato un nuovo comunicato, in cui ha reso noto che “Tim Non riusciva più ad andare avanti così. Voleva trovare la pace. Non era fatto per la macchina del business nella quale si era trovato; era un ragazzo timido che amava i suoi fan ma non reggeva le luci della ribalta”. In molti hanno letto queste parole come la conferma alle supposizioni più tristi, come l’ammissione che Tim Bergling abbia deciso di farla finita, in un resort anonimo, sicuramente lussuoso ma neanche troppo, su una spiaggia dell’Oman in un giorno di aprile, lontano dai riflettori, lontano dagli affetti, dalle luci dello showbiz, da tutto il rumore che lo accompagnava ovunque muovesse un passo. Non so se sia davvero così, e la verità è che non è così importante. Quello che conta è che un ragazzo di 28 anni ha lasciato questo mondo, ed è triste sempre, che sia un anonimo ragazzo come tanti, come tutti noi, come i milioni di fan che sognavano ascoltando la sua musica, o che si capitato proprio a lui, che era di fatto così speciale, unico, benedetto dal cielo con un talento ineguagliabile. Quello che conta è che Avicii è stato distrutto proprio dai suoi desideri, quelli – giustamente – di qualunque ragazzo con un talento e con la voglia e la necessità di esprimerlo. Senza sapere, e scoprendolo a sue spese, che realizzare i propri sogni può essere molto pericoloso. Il successo è un cavallo difficilissimo da domare. A maggior ragione se ti scoppia tra le mani quando hai vent’anni, e non hai conosciuto una parabola graduale in grado di proteggerti da certi eccessi intorno a te.
In questi giorni qualcuno ha obiettato che Avicii non è il primo al mondo a godere di tanto successo. È vero. Ma è vero che non tutti abbiamo lo stesso carattere, e soprattutto è vero invece che Avicii è stato il primo popstar dj di nuova generazione, nato con altri dj come miti personali, con l’idea che la musica è soprattutto quella che si fa con il computer e che essere costantemente in tour è un’opzione di vita assolutamente normale, qualcosa che può rientrare nelle abitudini di una persona. Anche per questo, oltre che naturalmente per il suo straordinario talento di songwriter e producer che l’ha portato a regalare al mondo diversi brani assolutamente memorabili, è stato uno che ha cambiato le regole del gioco se parliamo della concezione della figura del dj, del produttore e della popstar. Artisti come David Guetta, Tiësto, Swedish House Mafia, Diplo, Steve Aoki hanno avuto un’ascesa molto diversa, più lenta e costante. Sono diventati superstar a passaggi graduali, con tutto il tempo di capire come muoversi e come gestire gli aspetti più pesanti di una vita sempre in giro. Hanno avuto tempo e opportunità di adeguarsi a certi ritmi, di capire che bisogna passare da uno stile di vita “24/7 party” a uno più sano, anche in tour. Ad Avicii questo passaggio è mancato, forse per inesperienza, forse perché chi era accanto a lui era a sua volta inesperto e impreparato per gestire queste cose. La mitologia del rock’n’roll è piena zeppa di vite bruciate sull’altare degli eccessi; quella della dance non ancora. La morte di Tim Bergling ci spaventa e ci fa paura perché ha messo in luce tutti gli aspetti di cui si parla sempre troppo poco (noi l’avevamo fatto tempo fa) ma che stanno emergendo prepotentemente nel dj business: ansia da prestazione, ritmi forsennati, richieste di performance esaustive tra dj set, lavori in studio, video, gestione dei social e tutti gli altri dettagli del lavoro. The Black Madonna ricordava su Twitter quanto sia stressante questa vita, ma che in fondo è una vita che chi vuole fare quel mestiere si sceglie. Ha ragione? Fino a un certo punto. I numeri che giravano intorno ad Avicii erano fuoriscala.
Ci sono due passaggi nel documentario ‘Avicii: True Stories’ che mi hanno colpito molto, subito. Quando, in piena euforia da chiusura di un buon contratto, il manager Ash Pournouri afferma, scherzando: “Tim morirà. Lo faccio morire, con tutte le interviste, le richieste, le serate”. Ovviamente, era il 2011, la frase va letta come un augurio, come un incentivo a spaccare. Nessun manager vuole la morte del suo assistito, nemmeno nella peggior lettura distopica. Però, poi, vediamo negli anni le condizioni di salute psicofisiche di Avicii deteriorarsi sensibilmente, e verso la fine del film, quando già Tim ha deciso che smetterà di suonare in giro per il mondo di lì a breve, un’ennesima litigata al telefono con il suo management e poi la frase “vogliono spremermi fino in fondo”, mentre dall’altra parte del telefono Pournouri ha il delicato dovere di ricordargli che certi impegni presi non si possono cancellare così facilmente: ci sono le penali, i danni di immagine, e una serie di fattori che a cascata vengono ad abbattersi rovinosamente sull’azienda Avicii. E proprio di questo si tratta: del confine sottile e invisibile oltre il quale “smettere” diventa un problema, perché in pochi intorno a te saranno disposti ad accettare il fatto che la giostra si fermerà. Specie se la giostra è milionaria, e regala oltre ai soldi un sacco di bella vita. Ma anche questi sono aspetti che difficilmente si comprendono appieno se non si lavora in questo mondo, e pure lavorandoci non è immediato capire. In questi anni ho visto e conosciuto molti dj di successo, talvolta ho visto nascere e crescere quel successo, altre volte ho visto ragazzi e ragazze voler dire basta proprio per riprendere in mano una vita dai ritmi più umani. Per andare a mangiare la pizza con gli amici una volta ogni tanto senza dover consultare agenda e booking agent o uscire al cinema un sabato sera. Ci sta.
Per tutte queste ragioni credo ci sia troppo rumore intorno a una vicenda che senza dubbio desta scalpore e preoccupazioni. Perché è tutto legittimo e le reazioni sono di pancia, ma spesso andrebbero evitate. Le considerazioni del tipo “se l’è cercata” andrebbero tenute nella tastiera. Le sciacallate come l’instant-merchandising non autorizzato andrebbero denunciate e boicottate. È sempre facile cavalcare le onde del dolore, delle reazioni forti, nel mondo di oggi che regala a qualsiasi cretino l’opportunità di sparare una sentenza senza valore per il gusto di qualche like. Senza pensare che anche queste reazioni possono essere delle botte emotive forti per chi le subisce. Talvolta devastanti. È troppo semplice parlare di perbenismo e ipocrisia di un mondo che vuole mostrare una faccia pulita quando dietro tutto è marcio. Innanzitutto perché non è tutto pulito e non è tutto marcio. E poi perché sono dinamiche molto delicate quelle che spingono un essere umano sul palco. Questione di ego, di attitudine, di voglia di vivere, di ambizione. Ma Avicii ci ha dimostrato che è possibile anche la spinta opposta: la voglia di privacy, la paura e l’ansia del palco e delle troppe persone che ci si trova davanti, ogni sera. Che ci piaccia o no, Avicii ci ha riportati tutti nell’ordine delle cose rispetto a un mondo che abbiamo imparato a dare per scontato nella sua follia. Un episodio estremamente drammatico che ci costringe a sollevare il velo su troppi retroscena ambigui del nostro mondo.
27.04.2018