Foto: Rockstar Photographers
Quattro giorni in Ungheria sulle splendide rive del lago Balaton in compagnia di migliaia di appassionati di musica da ogni nazione europea, headliner di caratura internazionale, performance, installazioni artistiche e prezzi accessibili. Un mix di elementi che attirerebbe chiunque. E visto che nel mondo dell’entertainment molti sono capaci di promettere ma non tutti sembrano essere in grado di soddisfare le sempre più alte aspettative, sono stato a Balton Sound 2019 con un approccio il più possibile attento e curioso. Analitico e allo stesso tempo goliardico. Il resoconto di questa esperienza lo potete leggere nelle prossime righe.

Day 1
Dopo un’ora di volo e due di transfer arrivo a Zamardi, una piccola cittadina turistica sulle rive del lago Balaton, a sera inoltrata. Sono le 21, il crepuscolo cala velocemente sul festival come un’onda sulla spiaggia e da oltre una cortina di alberi arriva il pulsare rotondo dei subwoofer. È il main stage che mi volta le spalle. Ma la sua maestosità deve ancora aspettare: un veloce check-in in albergo, poi lo shuttle che ci riporta alle porte del festival. L’ingresso è affollato, denso. Migliaia di ragazzi, soprattutto ungheresi, fanno la fila per entrare, vocianti e sorridenti. Alcuni già brilli. Le operazioni per l’accreditamento sono un po’ caotiche ma in meno di deici minuti divento ufficialmente un festival-goer. Indosso il sorriso d’ordinanza, metto piede all’interno e vengo travolto da un fiume in piena di persone in transito tra i palchi. La prima tappa è obbligata: sul main stage sta suonando Tiësto, impossibile non rendere omaggio al dj-imprenditore di maggior successo al mondo. Lo stage è di dimensioni notevoli e abbraccia la folla con sei coreografici vasi, da cui sgorgano fumo e scintille, che giganteggiano come enormi dita ammonitrici. La produzione è la più classica – e costosa – dei festival internazionali: decine di teste mobili, strobo, fiamme, laser, Co2. Niente di meno di quello che mi sarei mai aspettato. Ma neanche nulla in più.
Dopo un’eccitante intervista a Valentino Khan (che pubblicheremo presto) e un cocktail, non posso mancare al set di Tchami x Malaa nella Dreher Arena. I due francesi si ergono, totalmente a loro agio, su due torri rivestite di ledwall. A distanza di una decina di metri l’uno dall’altro i due additano la folla e impartiscono una lezione magistrale di bass e g-house. Vedere l’uno cercare lo sguardo dell’altro per sincronizzarsi con i mix è qualcosa di magico, soprattutto in un mondo in cui il sync, quando parliamo di grosse produzioni a/v che coinvolgono più persone, regna sovrano. Valentino Khan a seguire porta lo spirito U.S.A. nell’arena: giocoso ma mai banale ipnotizza con i suoi famosi baffi chiudendo con un bis di ‘Deep Down Low’. All’esterno le persone iniziano a scemare. Comprensibile, visto che il festival è aperto 24/24 e chiunque può entrare o uscire a qualsiasi ora. Molti tornano alle tende che affollano il campeggio dedicato. Molti altri vociano attorno agli stage techno come Elrow e Jägermeister per continuare a ballare fino all’alba – e oltre. Il primo impatto è stato notevole. Ma è con la luce del giorno che si capisce quanto un festival sia sul pezzo.

Day 2
La sveglia suona “presto”. Una colazione corposa mi dà la carica e mi getto a capofitto nel festival. Arrivo alle 15 e mi perdo tra le decine di stage che punteggiano l’enorme area. L’atmosfera è quella rilassata e divertita dei migliori beach party: nelle tre spiagge attrezzate all’interno dell’area del festival, si rilassano, giocano o semplicemente prendono il sole con una birra fresca in mano (mezzo litro a poco più di 2 euro, prezzo impensabile per l’Italia) centinaia di persone. A metà pomeriggio il festival è colorato, accogliente. Frequentato ma non caotico. Il colpo d’occhio è eccezionale, con il lago che fa da sfondo a fiumi di selfie e foto che gli organizzatori non mancano di incentivare grazie a scenografiche scritte nell’acqua, spettacolari aquiloni e bizzarri quanto coloratissimi figuranti che fanno capolino tra gli alberi. Il risultato, neanche a dirlo, sono migliaia di post e Storie su Instagram.
Molto lo spazio per rilassarsi e divertirsi, compresi campi da beach volley, ma tanto anche quello riservato al food/beverage dove si potevano effettuare acquisti in un attimo grazie a un praticissimo braccialetto elettronico fornito a tutti i partecipanti. Poche le code, l’offerta è per tutti i gusti e la qualità media è buona. Il sistema funziona. Sul main stage, che si apre alle 18.30 e chiude a mezzanotte, si esibisce la tripletta spezzatino composta da JAUZ, Future e Marshmello. Il primo, furbacchione e smart, condisce la sua bass house piuttosto ripetitiva con remix dei grandi classici da festival. Boati ad ogni drop. Il secondo porta una ventata di black attitude con basi trap accattivanti, ballerini scatenati e ritornelli cantati all’unisono da chiunque. Non male. Dopo mezz’ora di cambio palco sale in cattedra Marshmello e non ce n’è per nessuno. Sappiamo tutti come gran parte del suo successo sia il frutto di una campagna di marketing molto intelligente, ma se quello che ho visto è replicato in tutto il resto del mondo – e lo è – chapeau. Giù il cappello. Visual curatissimi e mai ripetuti per più di una canzone, light show incredibile, presenza scenica da navigato veterano e selezione che concede meno del previsto ai classici tormentoni da festival. Dubstep d’impatto, molte sue grandi hit, remix del giro di Skrillex, Slushii e Kaskade e molte nuove tracce estratte dal suo nuovo album ‘Joytime III’ hanno scandito un’ora e mezza in cui il pubblico in visibilio partecipava ad ogni canzone. Moltissimi i bambini totalmente brandizzati Marshmello accompagnati da genitori e nonni trasformatisi in party people per l’occasione. Molti anche gli occhi strabuzzati ad ogni drop dubstep: probabilmente non tutti i genitori erano al corrente del background più hard di Marshmello.
A mezzanotte i fuochi d’artificio ridanno per un attimo la luce al cielo e le migliaia di persone presenti si disperdono lentamente negli altri stage. Io, dopo una capatina da Matador, mi avvio verso il cuore pulsante del festival: lo stage Elrow ospitato da Casa Bacardi dove un pimpante Bastian Bux massaggia la pista, gremitissima, in attesa dello show di Paul Kalkbrenner che, con il suo classico piglio accigliato e un trasporto invidiabile, trascina i presenti con techno onirica e martellante. Dopo qualche battuta di Nic Fanciulli e Deborah De Luca al Jägermeister stage mi avvio verso l’uscita, anche in questo momento mai satura di gente. La notte è calda. Le luci proiettano ombre deformi sulle tende. La musica andrà avanti fino a mattina inoltrata con l’after party affidato a Jay Lumien & co.
Day 3
Venerdì scelgo di andare al boat party con Dubfire. Mi taglia quattro ore di vagabondaggio al festival ma spero ne valga la pena. L’inizio non è dei migliori: stipato su un autobus con una mandria di austriaci ubriachi e molesti non mi aiuta a entrare nel mood. A questo si aggiunge il ritardo di più di un’ora di Dubfire stesso. Infastidito, finalmente guardo il molo allontanarsi. Dubfire monta il set up e dà il via alle danze: la prima ora è monotona, al limite del soporifero. Le seconde due sono invece piuttosto godibili. La brezza, il tramonto, la luce rossastra e la musica si allineano per creare momenti di pura euforia. I sorrisi si sprecano, la schiena sembra fare meno male. La birra scorre a fiumi.
Torno al festival giusto in tempo per godermi il nuovo live dei The Chainsmokers: ogni promessa è debito e, infatti, tengono fede alle loro dichiarazioni di non esibirsi più in un regolare dj set. Li accompagna il fedele batterista con cui si sono esibiti a Ultra Miami. I due si dividono i compiti: Andrew Taggart canta e interagisce con il pubblico; Alex Pall si occupa dei synth, fx, vocal aggiuntivi e altri strumenti. Lo show funziona mirabilmente lasciandomi piacevolmente soddisfatto. Hanno trovato la quadra giusta tra approccio da boy band e momenti in cui ricordano a tutti il loro background sfacciatamente EDM. Scelgo di chiudere il festival con CamelPhat all’interno dello stage Elrow. Una vera e propria festa nella festa: i due inglesi entrano flawless sulla coda dell’outro del dj procedente prendendo di sorpresa tutti. Intanto al mio fianco un italiano entusiasta della selezione, scrutando il ledwall in cui era proiettata solo una parte del nome dei dj, esclama: “però, fortissimi questi elph!”. Beata ignoranza. Balaton Sound è anche e soprattutto questo: divertirsi senza riserve, senza purismi di sorta, senza per forza dover conoscere a memoria tutti gli artisti o la tracklist, cercando tra i tanti un palco in linea con il proprio mood del momento.

In aereo, mentre sorvolo le Alpi, è tempo di bilanci. Balaton Sound ha rispettato la sua promesse di fornire divertimento a 360° in un contesto colorato, curato e con un’offerta musicale all’altezza? Sicuramente. Ma non aspettatevi né l’estrema attenzione per i dettagli dei festival belgi né una line up ultra raffinata come quelle dei festival inglesi. Se cercate un festival internazionale con l’atmosfera di un beach party perenne, condito con headliner di peso, musica elettronica di respiro internazionale a prezzi più che onesti, non esitate a considerare questa opzione. Tanto più che Budapest è a poche ore di volo da qualsiasi grande città italiana.
10.07.2019