Gli anni ’10 sono stati, giustamente, gli anni dell’EDM, per molti. Il fenomeno ha tenuto banco per buona parte del decennio, trasformandosi poi in pop e declinandosi in mutazioni genetiche più o meno riuscite e più o meno aggrappate ai cambiamenti del mercato, più che a tracciarne la linea. Ma certamente l’EDM ha segnato uno stile rivoluzionario nel modo di concepire e vivere la dance. È innegabile. Così come è innegabile che la seconda parte degli anni ’10 sia stata l’epoca della techno, che esiste dagli anni ’80 ma nelle ultime stagioni è diventata qualcosa di nuovo, diverso, mastodontico, popolare. E come negare l’importanza del dubstep e poi della trap, dei generi “bass-oriented” che hanno ridisegnato la musica creando una sintesi nuova.
Ma da qualunque lato la vogliamo vedere, il decennio che si è appena concluso è stato, più che mai, e indubbiamente, quello della musica alternativa. Della dance alternativa. Dei suoni diversi, “altri”, che il web e un mondo – e un mercato – sempre più veloci hanno spinto a una popolarità mai raggiunta in precedenza. Se nell’immaginario collettivo gli anni ’90 sono stati quelli in cui la musica avanguardista e “di qualità”, lontana dal pop, era riuscita a invadere le classifiche, negli anni ’10 è il pop stesso ad andare nella direzione dell’avanguardia, pescando in tempo reale trend e suoni che diventano telaio sonoro di successi clamorosi. Non solo: la dance alternativa ha conquistato mainstage e istituzioni, gallerie d’arte e pubblicità.
Underground pop
Il pop non è un genere preciso. Non ha caratteristiche definite a livello di suono, come il rock (le chitarre) o il rap (la parola “parlata”, ritmica). Il pop, se ci pensate, prende suoni e stili e li mette nella scatola della canzone, li frulla per dare un risultato preciso: la formula del successo. E negli anni ’10, molto spesso il successo pop è coinciso con suoni e dischi acchiappati direttamente dal grande calderone underground, il quale, più ricco e vario che mai, ha potuto bypassare le scelte di direttori artistici, programmatori musicali e dirigenti discografici per fare il giro contrario: ricevere l’approvazione diretta del pubblico, che ha oggi la possibilità di premiare e far diventare tendenza ciò che ama, facendo in modo che poi tutto questo arrivi per forza di cose, in modo dirompente, all’attenzione di chi deve scegliere cosa spingere. Esempi eccellenti sono producer come Gesaffelstein, Brodinski o gli Ackeejuice Rockers, che si sono ritrovati a lavorare a un best seller attesissimo come ‘Yeezus’ di Kanye West senza dover limare di una virgola il proprio sound; o ‘Take Care’ di Drake con Rihanna, che si basa sul remix firmato Jamie XX di un pezzo di Gil Scott-Heron (‘I’ll Take Care Of You’). E sempre Drake non ha esitato a prendere di peso ‘Superman’ di Black Coffee, brano squisitamente house, per cantarci sopra la sua ‘Get It Together’ insieme a Jorja Smith. Il canadese è un vero e proprio scout quando si tratta di pescare il jolly dal mondo alternativo: anche l’asso del grime inglese Skepta è stato messo sotto i riflettori del mondo pop da Drake. Ma il discorso continua. Beyoncé per la sua ‘Run The World (Girls)’ si regge sulla strumentale della seminale ‘Pon De Floor’ di Major Lazer e Afrojack. Ma con Major Lazer, e Diplo, va aperto un capitolo a parte.
Diplo & Friends
Thomas Wesley Pentz è senza ombra di dubbio l’uomo pop degli anni ’10. Più di David Guetta, più di Avicii, Calvin Harris, più di Martin Garrix, dei Daft Punk o di qualunque altro artista elettronico del decennio. Messo a fuoco l’obiettivo negli anni ’00, grazie a colpacci come i primi due dischi di M.I.A, al primo album a firma Major Lazer insieme a Switch (‘Guns Don’t Kill People, Lazers Do’ del 2009), e a quel laboratorio di scienziati pazzi che è la sua etichetta Mad Decent, Wes Pentz affina uno stile in cui vale tutto, i beat giamaicani insieme al favela funk brasiliano, l’Angola e Miami, Chicago e South London, il soul e l’EDM. È il primo a cavalcare i social e a farne un manifesto, prima con MySpace, grazie a cui arruola producer e cantanti e dove mette in mostra foto di viaggi avventurosi e momenti da nerd in studio, e poi con Instagram, dove oltre dieci anni dopo fa essenzialmente la stessa cosa, ma con una luccicante patina di glamour, paesaggi mozzafiato alle spalle e migliaia di dollari di outfit addosso. Diplo è rimasto se stesso evolvendosi, la sua musica è diventata il centro del mondo pop rimanendo se stessa. ‘Lean On’ di Major Lazer è una delle hit del decennio, eppure usa suoni e soluzioni (la vocina che i fa melodia sul drop) non convenzionali. È il pop a piegarsi a lui, più che il contrario. Poi certo, si è smussato, è entrato appieno nel sistema, ma è riuscito nell’impresa di far cantare a Beyoncé (intelligentissima lei in questa operazione) un suo beat senza cambiarne una nota. Diplo è il simbolo degli anni ’10, l’alternativo che conquista il mondo, sfruttandone le opportunità nel modo vincente. Così come ha saputo fare un altro artista, che non a caso proprio con Diplo ha messo in piedi il side project di maggior successo del decennio. Un certo Sonny Moore, in arte Skrillex.
Dubstep vs brostep
Se Bristol e Londra hanno inventato il dubstep, Los Angeles l’ha pompato a steroidi. Quel suono oscuro, sotterraneo, notturno che suonava per metà astratto e per metà prepotente sui bassi, con Tempa, Benga, Skream, Artwork, DJ Hatcha, Rusko a tirarne le fila, una volta uscito dall’autoreferenzialità underground e attraversato l’oceano, è andato a sbattere sulla costa californiana, diventando presto qualcos’altro, il vero rock’n’roll del nuovo millennio, grazie a Skrillex e alla sua evoluzione brostep. Lo tsunami Sonny Moore ha generato un maremoto che ha scombussolato diversi generi, dando vita anche a un’ondata di ritorno di producer britannici che hanno pompato ed estremizzato i canoni del genere, come Flux Pavillion e Nero, e alle numerose sfaccettature bass che da Jauz a Porter Robinson, da Madeon a Knife Party hanno maturato frutti molti diversi tra loro e molto lontani dalla radice originale, senza per questo perdere alcuni dei connotati ritmici nati proprio nei basement del Sud dell’Inghilterra poco dopo il 2000. Il dubstep è uno degli esempi più lampanti e clamorosi di come uno stile assolutamente anti-pop nei suoni, nelle strutture, nell’assenza di forma-canzone, sia potuto diventare estremamente popolare grazie a fattori temporali e tecnologici favorevoli. Internet, i festival, lo streaming sono stati aspetti determinanti nell’ascesa di questo genere, che oggi consideriamo facilmente assimilabile al mainstream ma che di fatto appartiene a una sfera decisamente alternative.
Quando la fidget non diventò EDM
Gli anni che vanno dal 2005 al 2009 sono stati un enorme serbatoio di idee che non trovavano sbocchi mainstream ma che preparavano l’avvento della massiccia dance invasion degli anni ’10. Broken beat, 2 step, minimal, e soprattutto la spinta della fidget house, dell’electro e del primo dubstep hanno ridato spirito e brillantezza alle possibilità di fare cose accattivanti in uno scenario che dopo il 2000 sembrava davvero a corto di idee. Parliamo di Switch, Hervé, Jesse Rose, Bugz In The Attic così come della scena francese di Justice, SebastiAn, Kavinsky e di tutto il giro Ed Banger. E soprattutto, del fervente momento italiano di Crookers, The Bloody Beetroots, Congorock, Nic Sarno, Blatta & Inesha, Keith & Supabeatz e molti altri. Un sound che sapeva intercettare un cambiamento nell’aria, che non si faceva problemi a unire cassa in quattro, bassi feroci, synth caciaroni, voci indie rock, rappati hip house come non si sentivano da metà anni ’90, e il tutto senza la minima preoccupazione se non quella di divertire il dancefloor. Una stagione estremamente creativa e importante, che ha forse perso l’occasione di fare il grande salto nel momento in cui l’electro-house si è trasformata in EDM, ma che vista da una prospettiva storica ha mantenuto dignità artistica e può fregiarsi di un ruolo pionieristico. Ancora oggi, artisti come Will.I.Am, Steve Aoki o Diplo non esitano a riconoscere a gente come Crookers un ruolo fondamentale nella parabola musicale della dance. Un producer come Mace, uscito dal collettivo Reset!, ha imposto il suo stile a produzioni pop come ‘Pamplona’ di Fabri Fibra e si è tolto la soddisfazione di avere una hit anche in Sudafrica (‘Umama’ di Sjava). E The Bloody Beetroots si è trasformato negli anni ’10 in una una one man band, anzi un one man concept capace di tenere botta sui palchi dei festival rock come di Coachella o Tomorrowland. E anche in questo caso, senza andare incontro a stravolgimenti del proprio sound ma portando tutti verso il suo.
Alternativi sul mainstage
Una rivoluzione importante è quella che ha visto nell’ultimo decennio molti act alternative, underground, avanguardisti, conquistare spazi con naturalezza e con le forze della propria musica. Personaggi come Flume, Jon Hopkins, Four Tet, Floating Points, Nicolas Jaar, Daphni, Moderat, FKA Twigs, The XX e Jamie XX hanno trovato fama e successo in modo così massiccio da diventare star da numeri pop. Proprio Jamie XX ha prodotto un album (‘In Colour’, 2015) che può essere interpretato come la miglior sintesi degli anni ’10, musicalmente parlando: se da un lato ripesca le radici rave, dall’altro esplora mondi nuovi nei suoni e mescola brani dal taglio pop a esperimenti sospesi, mettendo tutto in una ricetta che ha il profumo e il sapore del “tutto” che questi anni sono stati. Un tutto che significa frammentazione, recupero citazionista, avanguardia e tradizione insieme, influenze multietniche. E proprio dal punto di vista di una musica multietnica l’elenco delle novità rilevanti è potenzialmente infinito. Pensiamo a Rosalía e Omar Souleyman, all’iraniana Sevdaliza e ai napoletani LIBERATO e Nu Guinea, alla vasta scena sudafricana (e africana in generale, un continente ricchissimo di musica nuova) e a tutti i nomi che dal Sudamerica si sono affacciati a una ribalta mondiale.

Intellettuali ai festival e nei musei
Un altro aspetto assolutamente rilevante degli anni ’10 è l’interesse più vivo che mai per la commistione tra musica e arte concettuale. Partendo proprio da un nome italiano, quel Lorenzo Senni che ha conquistato prima la mitica Warp Records e poi tante sedi di alto livello nel mondo dell’arte, dalla Tate Modern di Londra all’Hangar Bococca di Milano. E ancora SOPHIE, la già citata FKA Twigs, Flying Lotus e il roster della sua label Brainfeeder, Arca, Kaytranada, Mura Masa, Slikback. Su tutti, svetta Aphex Twin, nome già consegnato alla leggenda ma che con ’Syro’ (2014) è tornato prepotentemente alla ribalta, facendo poi un ulteriore passo con il materiale pubblicato successivamente e soprattutto con le uscite live del 2018, grazie allo spettacolare e superbo apparato visivo e di light design firmato Weirdcore. Il visual artist ha poi prestato la sua creatività alle grafiche di Club TO Club del 2019, festival di punta di una scena internazionale che riesce a macinare numeri notevolissimi puntando tutto sulla propria natura alternative. Rete di cui fanno parte realtà come Sónar, indiscusso capostipite del genere, e altri big del circuito come Melt!, Dekmantel, Nuit Sonores, Meltdown, Afropunk e tantissimi altri appuntamenti, e piccoli ma preziosi boutique festival come Terraforma, che porta a Milano un concetto tutto nuovo di festival, con grande successo ed entusiasmo.
Gli anni ’10 sono stati i più alternativi di sempre. Se la dance ha vinto su molti fronti, una di queste vittorie è certamente quella, importantissima, di aver catapultato artisti e suoni lontani dal solito in sedi importanti: festival, pubblicità, cinema, gallerie d’arte e musei, e soprattutto nell’immaginario collettivo e nei gusti di moltissimi. Tanto che oggi il confine tra mainstream e underground, tra pop e avanguardia, è molto più sottile di quanto non lo sia mai stato. È il futuro, bellezza. Gli anni ’20 iniziano qui. Saranno curiosi, entusiasmanti, e – siamo pronti a scommetterci – molto alternative.
03.01.2020