a cura di Marco Bianchessi e Matteo Roma
‘Call Me If You Get Lost‘ è il titolo di un album apparentemente inatteso, uscito dopo un annuncio relativamente sbrigativo ed un periodo promozionale altrettanto breve. Tyler, The Creator è così, prendere o lasciare, e ciò sicuramente contribuisce ed alimenta l’immagine di un ruolo spesso inclusivo, e talvolta controverso. Con queste premesse comincia la lunga chiacchierata in redazione per analizzare il suo sesto album, seguito della pesante eredità di ‘IGOR‘, lavoro che ha notevolmente accresciuto la schiera dei suoi fan. A parlare approfonditamente di questo lavoro sono Matteo Roma e Marco Bianchessi, in una chiacchierata molto rilassata che è una sorta di flusso di coscienza, di dibattito, di scambio di opinioni tra due giornalisti molto appassionati.
Marco: Rompo il ghiaccio con una domanda secca. Ti è piaciuto il disco?
Matteo: Si, mi è piaciuto anche se penso che al suo interno contenga uno spettro stilistico molto ampio, che rispecchia le varie fasi della carriera di Tyler. Tra le tante opinioni ed approfondimenti in materia ho letto la definizione di ‘Beautiful Chaos‘, personalmente trovo sia la definizione calzante. Tu invece mi dicevi che ti era piaciuto, ma non lo consideri l’apice di ciò che ha fatto Tyler artisticamente, sbaglio?
Marco: È un disco che di base trovo interessante e mi piace. Non lo definirei un passo indietro, ma un passo a lato rispetto a ‘IGOR’, anzi scusa, trovo che sia un album dove va a riprendere espedienti dei vecchi dischi e li riporta all’oggi. Associo questo disco più a ‘Cherry Bomb’.
Matteo: Ci sta, Tyler ha avuto una transizione stilistica in cui, tra ‘Bastard’ e ‘Wolf’, la linea era la stessa ma in ‘Wolf’ si percepiva un netto miglioramento delle sue capacità come beatmaker. Poi c’è stato ‘Cherry Bomb’, un passaggio faticoso che non è stato apprezzato molto dalla critica. Tyler ne parla anche in questo disco come una sorta di delusione. Il grande salto in avanti con ‘Flower Boy’ dove ricevette una candidatura ai Grammy ma, sfortuna vuole, quell’anno c’era in gara anche un certo Kendrick Lamar con ‘DAMN‘. Infine ‘IGOR’ che è più vicino al concetto di concept album, distaccandosi dagli stilemi a cui eravamo abituati.
Marco: ‘IGOR’ rispetto alla sua discografia è un unicum, prima ti dicevo che questo disco era un passo a latere, mi correggo, è stato uno smarcarsi e qui Tyler riprende il filo del Tyler originale, e lo migliora sulla base delle esperienze già fatte. Negli ultimi anni secondo me si è raffinato molto, ha capito come scrivere, si esprime in modo più pulito, meno istintivo però va a recuperare lo sporco dei suoi primi dischi.
Matteo: Verissimo, inoltre quando esce un disco noi che lo commentiamo, ci spendiamo in annotazioni stilistiche, ma qui è lo stesso Tyler che dissemina dettagli su questo suo cambiamento. In questo caso specifico si capisce banalmente dal nome. Avevamo Wolf Haley, suo alter-ego nella fase iniziale della carriera, siamo passati ad IGOR che è un personaggio a latere, adesso abbiamo Tyler Baudelaire che è un altro alter-ego ma contiene al suo interno parte del nome originale. Il messaggio che possiamo percepire è che Tyler si presenta come se sé stesso ma offre, quasi polemicamente, un’attitudine vicina a Baudelaire dove l’artista deve fare quello che il pubblico si aspetta ed assolvere il proprio ruolo. Credo che Tyler l’abbia fatto perché parte del pubblico chiedeva un ritorno allo stile di ‘Wolf’.
Marco: Si assolutamente, anche perchè il Tyler di ‘Wolf’ non avrebbe mai scritto un brano come ‘Wilshire’. Uno storytelling intenso, frutto proprio della sua capacità di scrivere testi. Un ruolo molto congeniale a lui in cui si è dimostrato molto forte. Prima parlavamo di Kendrick, che negli ultimi anni è diventato un punto di riferimento in materia, qui Tyler ci fa vedere che anche lui sa scrivere ad un certo livello se vuole.
Matteo: Correggimi se sbaglio ma mi sembra che sia proprio in ‘Wilshire’ che lui rivendica il suo essere afroamericano criticando sé stesso nell’esserlo a volte solo nella facciata. La disanima che compie sul movimento Black Lives Matter è più legata ad una ironica autocritica che ad un impegno politico nudo e crudo.
Marco: Sai, la cosa che forse ‘IGOR’ aveva fatto dimenticare è che Tyler nasce come rapper, poi con questo album aveva vinto il Grammy Award come Best Rap Album, una vittoria accompagnata da numerose polemiche fatte dallo stesso Tyler, che lo riteneva un album molto più pop. Con questo disco si è riposizionato. Il discorso dell’immagine, a parte nella citazione di Baudelaire è meno presente. In ‘Flower Boy’ c’era stato un momento di stacco rispetto al passato, con ‘IGOR’ si era arrivati alla creazione di un personaggio con un relativo immaginario. Qui c’è ma sembra essere un tratto meno distintivo.
Matteo: Anche nei video c’è meno correlazione rispetto alla storia che viene raccontata. Notavo che, per esempio in ‘Lumberjack’, c’è un richiamo al bosco della copertina di ‘Wolf’. Un indizio con cui ci viene fatto capire che le cose, come sempre, non sono state lasciate al caso.

Marco: Se è vero che il filo conduttore è meno netto rispetto ad ‘IGOR’, io comunque ci vedo una maggiore pulizia rispetto al passato. Questo album è un concentrato di tutte le esperienza di Tyler. Anche nei video, è vero che manca la narrazione, però c’è un’attenzione e una cura molto forte, roba che Wes Anderson levati proprio!
Matteo: Anche nelle scelta delle collaborazioni si vede questo condensare le esperienze passate. A me ha colpito molto quella con Lil’Wayne, ‘Hot Wind Blows’, dove è presente il stampe di ‘Slow Hot Wind’ di Penny Goodwin. A tutti gli effetti una versione revised della loro collaborazione in ‘Flower Boy’, all’epoca poco apprezzata. Si sono presi una bella rivincita con uno dei featuring più belli del disco.
Marco: Assolutamente, le collaborazioni sono state sorprendenti per quanto mi riguarda. Quella con DJ Drama soprattutto mi ha stupito, per la sua presenza costante nei vari brani, ed è presente in quasi tutta la prima metà del disco.
Matteo: Se ci fai caso Tyler nella prima metà ha una main voice più bassa rispetto a Drama, questa cosa poi nel corso dell’album va a sparire, gradualmente, ed anche qui credo che ci sia un elemento narrativo e giocoso.
Marco: Per il versante più rap/trap ha chiamato dei nomi che mai mi sarei aspettato, 42 Dugg e NBA Young Boy sono due nomi che non avrei mai pensato di vedere in un disco di Tyler. E poi c’è Lil’Wayne che è due gradini sopra.
Matteo: Fun fact, nel fandom americano più giovane Young Boy veniva definito superiore a Tyler, tanto che qualcuno glielo scriveva anche sotto i video sui vari social. E la critica statunitense sostiene che Tyler abbia fatto una scelta di marketing geniale, perché inserire Youngboy voleva dire incorporare anche quella fetta di pubblico. Tornando più concretamente sul disco a livello di brani nudi e crudi quali sono quelli che ti hanno colpito più?
Marco: Io nasco da fan del rap, quindi quelli che mi hanno colpito di più sono stati quelli dove lui rappa a fuoco, come ‘Corso’, ‘Wilshire’ e ‘Juggernaut’ per la presenza di Uzi, che mi ha fatto drizzare le antenne quando l’ho ascoltato.
Matteo: Credi che Tyler possa aver fatto delle tracce come ‘Juggernaut’ e ‘Lumberjack’ per avere maggiore continuità nel corso dei suoi live?

Marco: Bella domanda. Sicuramente questo disco è molto più facile da portare rispetto ai due precedenti, è più caciarone, molto più da concerto. Sicuramente ha riflettuto sulla tracklist e sul come riportarla live, sarebbe strano il contrario, però non credo sia stato il punto di partenza. Tu hai viso Tyler dal vivo?
Matteo: Sì, io lo vidi a Milano ai tempi di ‘Cherry Bomb’, però ho visto molti video del periodo ‘Flower Boy’ e spesso i ritornelli venivano cantati integralmente dal pubblico. In egual misura ‘IGOR’ necessita di una messa in scena imponente, c’è bisogno di tanti elementi per portare questo album in tour. L’ho notato anche con altri artisti, che hanno compiuto cambiamenti stilistici importanti, e poi però sul palco faticavano a mantenere una sorta di organicità.
Marco: Senza dubbio. Credo che in particolare su ‘IGOR’ sarà un’esperienza abbastanza unica, ritengo sia improbabile che lo porti dal vivo insieme ad altre cose. Anche per questo ti dicevo che secondo me questo è un disco più semplice da portare sul palco.
Matteo: Un’altra cosa, con ‘Flower Boy’ ha allargato molto la sua fan base, con ‘IGOR’ è successo lo stesso, ci ha vinto anche un Grammy quindi penso sia stato notato da un ampio pubblico occasionale. Mi domando se i fan relativamente nuovi che si avvicinano ora alla musica di Tyler abbiano sufficienti riferimenti per coglierne i significati o rischino di trovarsi disorientati?
Marco: Nel momento in cui un artista fa un cambiamento stilistico, rischia sempre di perdere fan. Devo dire che, anche per il discorso del perfezionamento stilistico che menzionavamo prima, non credo ne perderà tanti, e non credo che i fan saranno così spiazzati. Nel senso, è vero questo lavoro è diverso dal precedente ma non è una versione estrema di Tyler, di conseguenza se hai un minimo di cognizione questo disco diventa leggibile anche se hai sentito solo ‘Flower Boy’. Se invece sei affezionato a ‘IGOR’ e vuoi quel personaggio, allora questo disco non fa per te, però come abbiamo già detto è un album quasi indipendente nella sua discografia. Questo è un Tyler più canonico, chi ha amato solo ‘IGOR’ questo disco non lo apprezzerà, ma se hai seguito un minimo il suo percorso hai tutti gli strumenti per capire questo lavoro, non si tratta di un album inaccessibile.
Matteo: Si, sono d’accordo, anche secondo me non è un lavoro inaccessibile, presenta anche degli hook più piacioni che ammiccano anche alla trap o dei brani vicini al neosoul, come ‘Wasyaname’. Io resto sempre colpito da una cosa di Tyler, il fatto che sia colui che scrive le lyrics ed allo stesso tempo il beatmaker di sé stesso. In passato questa cosa ha dato adito a delle assonanze con un certo mondo dell’elettronica. Mi viene in mente Lone, che ha delle sonorità che ammiccano al mondo videogame anni ’90. Tyler ha fatto delle strumentali come ‘AUX 79’ che sembrano tracce prodotte da Lone. Anche qui mi sembra ci sia un lavoro imponente da un punto di vista di tessuto ritmico, tu che ne pensi? Credi ci siano stati dei passi avanti o indietro?
Marco: No, devo dire che da un punto di vista di produzioni lui a me piace sempre, abbiamo abbandonato una forma disco più pop per prenderne una più rap, e le strumentali vanno di conseguenza. Lui a me da l’idea di sapere perfettamente quello che vuole e questo lo riesce sempre a portare in direzioni inaspettate o ad aggiungere dettagli di classe, come i sample anni ’70. Detto questo, non credo che abbia fatto dei passi avanti, se questa è la domanda, però non ci vedo neanche un passo indietro. Lui è one man band, ci sono video di ‘Cherry Bomb’ dove lui dirigeva un orchestra di fiati per realizzare il suono che voleva, per cui nella direzione generale lui è uno che ha sempre il controllo. Qui non ci trovo magari dei guizzi fuori scala, però devo dire che alla fine le produzioni mi piacciono tutte.
Matteo: Tyler è uno molto attento alle dinamiche di comunicazione nel momento in cui deve andare a produrre un disco e a promuoverlo. In questo caso mi sembra che il fatto di aver presentato una serie di influenze diverse all’interno dell’album sia un modo per condensare l’esperienza avuta, ma ci noto anche un parallelismo con il modo di fruire la musica contemporanea, caratterizzato da spotify, shuffle compulsivo, ascoltando un minuto di brano per poi passare al successivo. È un dubbio legittimo?

Marco: No, secondo me non si tratta di un Tyler “estremo”. ‘Call Me If You Get Lost’ non è un macina streaming né un disco di shuffle, perchè altrimenti non avrebbe fatto pezzi da più di otto minuti. Ma il motivo per cui Tyler piace è anche perché, sotto certi punti di vista, se ne frega di queste dinamiche, chiaramente come tutti cerca di fare delle cose intelligenti rispetto al contesto, e la sua fanbase è anche abituata a questa mentalità e ricettiva in questo senso. Paradossalmente secondo me ‘IGOR’ era un disco più adatto a questo tipo di discorso, un disco più compatto, dove potevi anche permetterti di skippare una traccia perché più omogeneo come lavoro. Qui mi sembra che ci siano tracce molto diverse, con testi più complicati e più ricchi.
Matteo: Ci sta, la mia era una provocazione non tanto sul voler fare un disco che a priori fosse per lo streaming, ma sul fatto che all’interno di questo lavoro ci sia uno spettro ampio di generi, anche per attecchire su una fetta più ampia di spettatori. Perchè chiaramente, tornando anche sul discorso dei featuring, Tyler è ascoltato da chi apprezza un rap più consapevole, e quindi riuscire ad avvicinare un pubblico che non ascolta quel tipo di musica può essere una delle mission. Però sono d’accordo sul fatto che a Tyler non interessi troppo quest’aspetto. Se si può fare senza scendere a compromessi bene, se diventa una cosa che rischia di minare ciò che ha in mente, ne fa volentieri a meno.
Marco: Anche perchè non credo che lui sarà mai apprezzato fino in fondo da chi ascolta la trap, se anche mette NBA Young Boy o 42 Dugg non sposta chissà cosa, difficilmente prenderà quel pubblico. E ne ‘Lemonhead’ ne ‘Wasyaname’ mi sembrano destinati a diventare delle hit ne che vanno a prendere quel mondo.
Matteo: Si, e anche sul discorso delle hit che possono avere un effetto esca, probabilmente Tyler non è interessato. Risulta chiaro che vuole fare buona musica ma non è primariamente per fare il disco di platino.
Marco: Se ci pensi, per anni è stato un personaggio di culto ma mai quello nazional popolare, ha sempre ottenuto ottimi riscontri senza però diventare mai davvero per tutti. Non è il primo che metti in playlist quando sei con gli amici. Sfrutto l’occasione e ti faccio l’ultima domanda: quali tracce ti sono piaciute di più?
Matteo: ‘Hot Wind Blows’ con Lil’Wayne come detto in precedenza. Mi piace molto anche ‘Safari’, con quegli arpeggi che ricordano Lone e le sonorità del retrogaming. ‘Wilshire’ poi è l’altra traccia che mi ha colpito maggiormente, perchè abbiamo un Tyler narrativo, dove anche lui interrompe la canzone a più riprese e spiega quello che sta succedendo a livello introspettivo.
Marco: Questo credo sia un altro dei motivi dei costanti apprezzamenti nei suoi confronti.
Matteo: Sì, senza dimenticare il suo immaginario visivo, che nasconde delle interessanti divagazioni dalla visione machista di un certo tipo di rap. Poi è vero, ci sono delle controversie in merito ad alcuni testi del suo passato, alla presunta mancata assunzione di responsabilità sociale. Ma Tyler ha sempre detto, implicitamente ed esplicitamente, sin da ‘Bastard’ che lui è un agent provocateur. Chi da Tyler si aspetta la figura salvifica di un eroe probabilmente lo segue da poco o lo segue distrattamente. Detto questo se dovessi concludere la chiacchierata direi che ‘Call Me If You Get Lost’ è un album che ci consegna un Tyler maturo, che accorpa e migliora molti frammenti del suo percorso precedente, e che allo stesso tempo si smarca dall’esperienza di ‘IGOR’.
Marco: Un ritorno alle origini apprezzabile, con alcuni picchi per quanto riguarda la scrittura e le scelte stilistiche. Non un album che fa gridare al capolavoro ma un album comunque di alto livello dove la componente rap torna ad essere centrale dopo gli esperimenti degli ultimi anni.
02.08.2021