Un cartello, in economia, è un accordo tra più produttori indipendenti di un bene o un servizio per porre in essere delle misure che tendono a limitare la concorrenza sul proprio mercato, impegnandosi a fissarne alcuni parametri quali le condizioni di vendita, il livello dei prezzi, l’entità della produzione, le zone di distribuzione.
Ho preso di peso questa definizione da Wikipedia, confesso, ma potrebbe arrivare tranquillamente da un manuale di economia. Semplicemente semplificata, scusate il gioco di parole (l’ho fatto apposta, mi piace), per noi comuni mortali. Il cartello che siamo più abituati a sentir nominare, un po’ per le cronache, un po’ per il successo di Narcos o delle inchieste di Saviano, è quello della droga. I cartelli messicani, quelli colombiani, quelli della mafia, hanno letteralmente invaso l’immaginario collettivo. Qui, grazie al cielo, ci occupiamo di musica, ma anche la musica ha i suoi cartelli. Specialmente la dance, che nel tempo ha conosciuto diverse ondate di talenti e mode in cui il sound di un determinato Paese è riuscito a imporsi sul mercato.

The politics of dancing
Spesso c’è una ragione sociale alla base dei fermenti musicali che portano una determinata scena a produrre musica coerente, coesa, con un’idea di fondo comune nei suoni e nell’attitudine. ‘The Politics Of Dancing’, “la politica della danza”, è il titolo di un vecchio brano dei Re-Flex e di una serie di compilation firmate da Paul Van Dyk. Proprio PVD, nell’introduzione al primo volume (nel lontano 2001), spiegava come la musica sia strettamente connessa alla danza (ed è abbastanza ovvio) ma anche alla politica. Perché è un atto a suo modo politico. Van Dyk, berlinese dell’Est scappato a Ovest da ragazzo con la madre e il cane, ha vissuto il momento della caduta del Muro di Berlino e la conseguente rivoluzione sociale della città in prima persona; anni in cui la musica diventava per i giovani un fortissimo collante di aggregazione, e un modo di intendere la vita e la società. Così è in diversi contesti storici: per i ragazzi neri di Detroit, per la comunità gay di Chicago, per i giovani inglesi che hanno inventato Ibiza e i rave per sfuggire alle grigie politiche thatcheriane degli anni ’80. Ogni epoca si è specchiata nella sua musica, soprattutto in un club, in una festa, perché nella danza si possono inventare nuove convenzioni sociali. Spesso aggiungendo a questo gesto così normale una forte carica rivoluzionaria. Politica, appunto. E se ci fate caso, ogni musica è lo specchio della sua era: l’EDM è borghese e rassicurante perché figlia di un relativo benessere e stabilità sociale; la techno berlinese rifletteva (e riflette) gli umori inquieti di una società che si trasformava velocemente; la house di Chicago e il suono balearico di Ibiza erano il ritratto di comunità edonistiche che si rifugiavano nella musica. La premessa era necessaria, perché i giovani dj e produttori che fanno nascere fenomeni e movimenti sono comunque, pur sempre, degli appassionati che nascono come frequentatori di club e poi diventano protagonisti. Spettatori assidui che decidono di entrare nello schermo e diventare attori protagonisti.
Tutto nasce da uno o più generator, personaggi che per primi credono in qualcosa. Poi arrivano i trendsetter a dare con il loro supporto un’impronta più marcata alla faccenda, innescando quel principio imitativo che genera moda, senso di appartenenza, spirito di comunità. Anche per la musica succede così. Un’invenzione mette in moto un meccanismo di imitazione della formula, che viene messa a punto nei suoi stilemi e archetipi principali, nelle sue strutture chiave, e decodificata in un genere. Ecco perché possiamo definire con una certa precisione se un pezzo è drum’n’bass, dubstep, trap, garage o trance. Ed ecco perché certi focolai si sviluppano in determinate aree. Nel corso del tempo, in diverse zone del mondo (Paesi, città, o addirittura quartieri) sono nati e sbocciati diversi di questi fenomeni. Fuochi che si sono accesi risplendendo più o meno a lungo.
Le leggi del mercato
In diverse fasi storiche abbiamo visto l’ascesa e l’egemonia di un suono, di uno stile di un manipolo di artisti di un preciso Paese sul mercato musicale, che è interessante prendere in esame e analizzare. Partiamo proprio dalla nostra terra.
Italia
L’Italia è da sempre una grande esportatrice di musica, e ha da sempre un pubblico fortemente ricettivo, soprattutto in due ambiti: nella musica classica e nella musica elettronica. Negli anni ’90 la dance italiana è stata capace di creare un vero cartello, con una forza di mercato tale da poter dominare le classifiche europee con progetti discografici, spesso accomunati dagli stessi producer o da uno stesso gruppo di etichette che funzionavano come delle vere factory. Le radio spingevano molto la dance, i club erano pieni e i giovani sognavano di fare i dj. Questi fattori hanno innescato un circolo virtuoso che ha portato in alto la dance made in Italy. Un fenomeno che purtroppo non si sta ripetendo oggi: mancano delle strutture e figure manageriali forti, agenzie in grado di “fare il prezzo”, club e festival dal peso specifico in numero tale da essere in grado di muovere il mercato.

USA
L’America è vastissima, ma quattro città in particolare sono riuscite a costruire un cartello della musica da club negli Stati Uniti. A Chicago è nata la house, a Detroit la techno, e qui sono sorte le prime label espressamente dedicate a questi generi. I primi cartelli, quindi, nascono per forza di cose qui, nella seconda metà degli anni ’80, grazie a un manipolo di giovani entusiasti che in totale indipendenza prima, e grazie ad accordi con grandi distribuzioni e case discografiche poi, sono riusciti a trasformare l’avanguardia in industria. L’artigiano diventa imprenditore, l’estro diventa formula. Gli appassionati fanno del loro amore il loro lavoro. New York ha visto invece l’ascesa delle grandi etichette house degli anni ’90, quelle leggendarie dove tutti i producer del pianeta avrebbero voluto pubblicare, quelle le cui release erano introvabili anche nei dj shop più forniti e si compravano a scatola chiusa. MAW, Armand van Helden, David Morales e altri produttori diventati famosi a quei tempi sono stati le prime vere superstar della consolle. Los Angeles è invece la città protagonista di questi nostri anni, terreno fertile per festival club, studi di registrazione, e luogo di business perfetto per portare la musica dance a Hollywood, in TV, nelle pubblicità. L’era che stiamo vivendo ha come epicentro la California, perché qui ciò che nasce altrove trova terreno fertile per svilupparsi, fondi di investimento e società disposte a pianificare il business e farlo volare alto. Non è un caso se molti grandi protagonisti della scena mondiale hanno scelto di vivere o avere una base qui.
Regno Unito
Londra, la BBC, le radio pirata, DJ Mag, i club più influenti del pianeta. Difficile immaginare un cartello più forte di quello britannico. Fin dai tardi ’80 gli inglesi hanno creato un sistema di intrattenimento capace di avere una mentalità industriale squisitamente anglosassone ma un’attenzione per l’arte di concezione tipicamente europea. Nel Regno Unito hanno sempre saputo come gestire e dare ossigeno a un’industria che ha dimostrato una lunga e prospera egemonia sul mercato mondiale. Complice un pubblico preparato, ed esigente, il protezionismo spietato e l’ambizione colonialista (in questo caso commerciale e culturale) insiti nel DNA britannico.
Germania
Pochi Paesi al mondo hanno potuto vantare nel tempo l’ascesa e il dominio in diversi settori della musica elettronica come la Germania. Dalla caduta del Muro e per tutti gli anni ’90, la scena tedesca ha dato vita a un’enorme varietà di stili e mutazioni. Molte altre città (Amburgo, Francoforte, Colonia) hanno contribuito a fortificare l’ampia scena tedesca. Dai suoni duri e veloci degli anni ’90 fino alla minimal del decennio scorso e ai fasti della Berghain generation, in Germania etichette, dj e club hanno costantemente lavorato su un fronte comune che ha reso il Paese uno dei grandi protagonisti della mappa internazionale. Techno, trance, euro-dance, house, hardcore. I tedeschi sono forti dappertutto.
Francia
I Daft Punk con ‘Homework’ sono stati i capofila di un grande movimento; Bob Sinclar, DJ Falcon, Alan Braxe e tanti altri hanno seguito, e così la house francese nell’ultima parte degli anni ’90 è fiorita dando vita a splendidi dischi, label, a un mercato florido dettato da un gran gioco di squadra. Che però ha il grande pregio di non perdere le sue caratteristiche artistiche e artigianali, fondamentali per salvaguardare la qualità della musica. Nel decennio successivo, con Pedro Winter e la sua Ed Banger (ce ne parlò proprio lui qualche mese fa su queste pagine) si è creato un nuovo movimento, e ancora una volta una gestione “famigliare” della label e del relativo management ha consentito di mantenere alta la creatività decisamente a lungo.
Svezia
Un altro caso da mettere sotto la nostra lente, quello della Svezia, Paese che quando si tratta di musica possiede sempre enormi risorse. Dagli Abba agli Ace Of Base a Max Martin, in terra svedese la musica è una cosa seria. E lo è soprattutto quando si parla di elettronica. Che sia la techno di Adam Beyer, l’EDM di scuola Swedish House Mafia, il pop di Avicii, la voce di Sandro Cavazza o il geniale ibrido di stili di Eric Prydz, la Svezia ha portato la dance a livelli di qualità e popolarità stellari.
Olanda
L’Olanda è un caso da studiare nelle università. Da sempre in primissimo piano nella scena dance mondiale – basti pensare aTiësto, Armin Van Buuren, a tutto il movimento trance che è stato al centro del mercato dance di largo consumo – i Paesi Bassi sono l’unico posto al mondo in cui questo tipo di musica è considerato classic pop. Tiësto è sicuramente il musicista olandese più famoso di sempre, nel mondo. Ebbene, un Paese così piccolo ha dato vita a un sistema che comprende agenzie di booking e di comunicazione, label con scuole per producer, management di altissimo profilo. Il risultato sono artisti come Martin Garrix, Hardwell, Nicky Romero, Dyro, Dannic e via dicendo, una vera fucina in cui un nome importante inizia a trainare i suoi protetti facendogli largo nel mercato internazionale, e la costruzione di spazi e opportunità che vedono gli artisti olandesi in corsia preferenziale. Un modello unico al mondo.
31.10.2017