Qualche giorno fa mi è capitato di guardare un video sulla pagina di DJ Mag (UK). Eric Prydz suona ‘Insomnia’ dei Faithless al Tomorrowland. “Wow!” penso, “che bello quando si suonano i grandi classici”. Apro il video, e ovviamente il classico… non c’è. O meglio, c’è. Ma come capita quasi sempre, in un edit in cui intorno allo storico giro originale è stato costruito un nuovo impianto, con suoni giustamente attuali, omogenei rispetto al resto del set di Prydz e in grado di non sfigurare rispetto a come suona la musica oggi. Da qui è nato il ragionamento che ha portato a questo articolo. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, dice il postulato fondamentale di Lavoisier. Una verità che ritroviamo nella musica, e in particolare nella musica da club.
La dance è un genere dalle caratteristiche molto precise: è di rapidissimo consumo, viene prodotta in fretta per essere fruita in fretta; deve sottostare a una imprescindibile legge di funzionalità: una traccia dance deve far ballare, altrimenti può essere meravigliosa ma è un flop; è fortemente soggetta alle trasformazioni tecnologiche di software, mix e mastering. Questi tre fattori rendono la dance obsoleta in brevissimo tempo. Un pezzo che suonava forte e nuovo nel 2010 oggi appare datato; un brano del 2005 suonerà inevitabilmente fiacco se mixato con uno uscito pochi mesi fa. La tecnologia stravolge la pasta del suono e la “pompa” che si dà in fase di mix e mastering. E quindi anche i classici rischiano di suonare male, deboli, di non reggere il confronto con i dischi nuovi nel mezzo di un dj set. Tra l’altro, mi hanno dato conferma di quanto dico proprio i Faithless, che in un set di un paio d’anni fa a Londra suonarono molti dischi datati, che apparivano nettamente meno “bouncy” di quelli messi da chi era in consolle prima e dopo di loro. Ma visto che la dance ha ormai una sua storia, lunga e gloriosa, e che di classici ne esistono, il trucco è quello di rinfrescarne il suono. Ogni cinque, sei anni, se ci fate caso, escono nuove versioni di moltissimi pezzi considerati patrimonio comune dei dj e dei clubber di tutto il mondo. Da ‘Born Slippy’ degli Underworld a ‘Show Me Love’ di Robyn S passando per ‘Cafè del Mar’ degli Energy 52 e le hit di Fatboy Slim, non esiste traccia che non venga riproposta costantemente in un remix o remake nuovo e aggiornato sul sound del momento. Una ricontestualizzazione perpetua, che da un lato certamente ha il merito di svecchiare e mantenere costantemente giovani e fresche le canzoni, o semplicemente i riff o i vocal più celebri della nostra cultura. Ma dall’altro, sottopone questa cultura e la sua storia al rischio di una mancata sedimentazione storica. Come se venisse meno una tradizione in cui conosciamo i brani nella loro versione originale, nella loro prima e unica concezione artistica.
So che è un concetto che tende al filosofico, ma è interessante: possiamo pensare a mille cover di ‘Satisfaction’ dei Rolling Stones, ma la versione originale è quella. Nella dance, spesso succede che un remix dopo l’altro si perda il ricordo delle versioni originali. Già negli anni ’90 scoprivo che la versione di ‘Keep On Jumpin” di Todd Terry era un remake dei Musique e ‘Weekend’ dello stesso Terry era un remix della sua hit del 1988 (ottimo esempio di un brano che è stato poi ri-arrangiato infinite altre volte). Nel corso del tempo la pratica si è allargata in modo esponenziale. È una condizione artistica inusuale, che mescola molti elementi ricorrenti del nostro tempo (non solo nell’arte e nella musica). Una tecnica che ci permette di tirare in ballo la Gioconda con i baffi di Duchamp (ma il titolo dell’opera è ‘L.H.O.O.Q.’, che letto in francese è un provocatorio “lei ha caldo al culo”), le stampe di Warhol e molto cinema iper-citazionista di oggi. Ma che resta comunque, a suo modo, unica. E curiosa. Nella dance, nulla è immutabile, ma tutto si trasforma. E così, neanche i classici sono intoccabili.
16.01.2019