Il Cocoricò – o meglio, il marchio Cocoricò – sarebbe stato ceduto a una società appartenente a Gabry Ponte, a garanzia di un debito di oltre 200mila euro verso il dj torinese. La notizia è apparsa martedì 3 maggio sul Corriere di Romagna. Ripresa da altri giornali e siti di musica, si è diffusa in breve tempo, seguita da una smentita ufficiale del proprietario Fabrizio De Meis, che rassicura sul fatto che il club abbia trovato un accordo per non perdere la proprietà del marchio. Nel frattempo, qualche promoter e qualche dj reclama sui social ulteriori debiti del Cocco anche nei propri confronti. La situazione è triste.
Ancora più triste, e grave, è il fatto che la parabola del club di Riccione rappresenti la prercezione che il “Paese reale” ha delle discoteche in Italia. Al di là dei problemi che una società può avere e dei debiti che il Cocoricò può avere contratto con artisti e con le persone con cui lavora, il fatto che ci interessa prendere in esame è “come” si arrivi a vedere un club di lunga storia, di grande tradizione, e di fama mondiale, a versare in queste condizioni. Noi non abbiamo visto i libri contabili del Cocoricò né di De Meis, sicuramente i problemi sono tanti; ma ciò che è successo l’estate scorsa, ancora una volta, fa sentire il suo peso e le sue conseguenze. Il linciaggio mediatico, totalmente gratuito, subìto dal Cocco l’anno passato, ne ha cancellato l’appeal; l’ha messo sotto una cattiva luce. Unito allo stop forzato durante la stagione estiva, ha messo a dura prova l’economia del locale. In queste condizioni, è difficile lavorare sereni e pensare a una ripresa. Il nostro mondo, quello delle discoteche e del clubbing, viene sempre visto come il male. Riuscite a trovare la differenze tra “cultura dello sballo” e “club culture”?

Il primo termine, anche antico nella sua definizione, indica un mondo marcio, pericoloso, proibito. Il secondo, una cultura, un mondo costruttivo, qualcosa che ha un valore. In Italia siamo ancora fermi allo sballo, al mondo-della-notte visto come il lato oscuro della società. Altrove, si parla di “cultura del club”, con un’espressione che abbraccia musica, estetica, abitudini. È vero, nel tempo abbiamo imparato a concepire e accettare maggiori controlli, a tutelare nel modo giusto i clienti, a non fare in modo che il club diventi un luogo selvaggio in cui circolano sostanze in grande quantità. D’altro canto, pare che ogni problema e ogni guaio sia di responsabilità dei club: quanto avvenuto recentemente all’Hangar di Pietrasanta, dove il locale è stato posto sotto sequestro per una settimana dopo una rissa avvenuta nei dintorni del locale (nei dintorni!) conferma nuovamente come le discoteche siano viste a priori quali simboli del casino. Mentre, al contrario, non viene riconosciuto alcuno status culturale alla proposta musicale dei locali. I fondi pubblici per lo spettacolo prevedono finanziamenti per l’Opera, per la musica classica, per i teatri, per il cinema. Per progetti spesso fallimentari, destinati al tracollo in partenza. Ma in quei casi “la cultura non si tocca”. Cosa succederebbe se i finanziamenti iniziassero ad arrivare anche per i club? Ci siamo sempre basati su un modello imprenditoriale strettamente privato, regolamentato dal libero mercato, senza mai chiedere una mano. Sarebbe bello vedere riconosciuto un valore alla club culture – non alla cultura dello sballo – uno status anche in questo senso.
05.05.2016