Era nata come una scommessa social (era scontato che sarebbe diventata realtà) e ora eccola qua. la traccia di Lil Krem, ovviamente Kremont di Merk & Kremont. ‘Disco d’oro’ è uno scherzo da web ma la verità è che ci dà modo di fare un’analisi su una situazione molto particolare, quella della musica che potremmo definire “pop giovanile italiano”. Il video inizia con uno sketch che ci proietta già in un’atmosfera da cabaret televisivo, con il cameo del Mago Oronzo (Raul Cremona, per i due o tre che ancora non lo sanno il papà di Kremont). Per me potrebbe già essere sufficiente, sono un grandissimo fan di Cremona da sempre.
Ma venendo al sodo, il pezzo e il video ripetono e prendono in giro i cliché della trap all’italiana e la sua componente estetica, dal video all’abbigliamento a tutto l’immaginario, e nelle due strofe c’è una forte componente auto-ironica sul lavoro da producer in studio “mentre il disco d’oro lo fanno loro”. Ed è vero: Merk & Kremont hanno pubblicato tracce e remix su label prestigiose ma nell’ultimo anno hanno probabilmente raccolto più successo con i brani di Rovazzi e del Pagante. E proprio qui sta il punto: Rovazzi e Il Pagante fanno cose “da ridere” ma molto più curate di tante produzioni “serie”; il rap della nuova generazione, trap e dintorni, che per tipologia di pubblico e per segmento e numeri chiamo appunto “pop giovanile italiano”, perchè di fatto occupa quello spazio, si prende molto sul serio ma le atmosfere non sono poi così distanti da quelle di ‘Disco d’oro’. C’è qualche problema se le cose fatte per ridere se la giocano con quelle fatte per essere serie (e trattandosi di rap, pure con una certa attitudine a credersela). Insomma, con tutte le eccezioni del caso (Ghali, Rkomi per fare due nomi che mi sembrano spiccare in un panorama in cui molti si assomigliano), sarà la relativa semplicità con cui oggi si può mettere insieme un beat decente e un flow che ci stia dentro, sarà quell’insieme di elementi che permettono un approccio “facile” ma pare che il rap (e quindi il pop, in qualche modo, la musica di larga diffusione, diciamo) sia a un punto di stallo: tanto successo, apparentemente facile e immediato, per ragazzi che hanno capito come funzionano le regole del gioco. Poi alzare il livello (o mantenere il successo) è un’altra cosa. Probabilmente sarà solo una contingenza storica: ricordate gli anni ’80 in cui il synth pop rese facile un certo tipo di produzione e sdoganò un periodo di successi non certo memorabili ma di grande popolarità? Sta succedendo qualcosa del genere. Sarà il tempo a dirci cosa rimarrà e cosa no. Ed è pur vero che il rap in Italia, nonostante i cicli che si compiono puntuali, nell’ultimo decennio ha messo le radici, non più come cultura forte e chiusa nella propria comunità ma come fenomeno generazionale, più trasversale nel tipo di pubblico, nell’approccio e a livello stilistico, quindi ovviamente dall’identità meno connotata e uniforme. Senza addentrarci nelle questioni su chi è “real” e chi non lo è – francamente mi annoiano da morire, perchè i real spesso si sono dimostrati tali finché non arrivava qualche offerta pesante -, dovrebbe far sorridere come tutta questa riflessione sia nata da un disco che è una presa in giro. Ironico, no?
24.01.2017