
Gli Aucan mi hanno sempre colpito perché hanno messo in atto un’idea a cui avevo spesso pensato: vedere il dubstep come un genere molto rock, nell’attitudine, e quindi declinarlo in una dimensione live. In parole povere, dubstep suonato da una band. La loro forza è stata proprio quella di unire un’estrazione hardcore ad un tipo di musica elettronica di grande impatto. Da fenomeno italiano, di provenienza indie, si sono costruiti una reputazione internazionale e adesso approdano alla Ultra, label americana che sta fagocitando una bella fetta del mondo dance mainstream di questi anni e che ha pubblicato il loro nuovo lavoro, “Ep 1”, uscito da poche settimane. Un bel colpo. Ho chiesto a Jo e Francesco, due terzi del gruppo (l’assente è Dario, il batterista) della loro nuova avventura, del loro ep in uscita e di come hanno realizzato questa idea.
Cominciamo a descrivere Aucan dall’inizio, come è nato il vostro progetto così peculiare?
Jo: Eravamo all’università insieme, la nostra passione per la musica ci ha portati ad avere un gruppo, in realtà tutti suonavamo già in altre band ma ci siamo messi a fare esperimenti che ci scambiavamo via web. Andando avanti le cose si sono evolute e ora eccoci qui.
Quando avete capito che qualcosa si muoveva sul serio?
J: C’è stata una serata all’Estragon, qualche anno fa, di spalla al Teatro Degli Orrori, dove abbiamo pensato che avremmo potuto fare questo di lavoro. E quindi abbiamo messo tutto il nostro impegno in Aucan.
Francesco: Secondo me uno dei motivi per cui siamo cresciuti è perché abbiamo deciso di prenderla seriamente quando non era ancora il caso di farlo, quando non c’era un riscontro economico ed era tutta una questione di passione e sacrifici. Prima ancora di avere feedback positivi.
Voi siete partiti con un pubblico di riferimento molto più vicino all’indie e poi, negli ultimi anni, vi siete spostati verso un mondo dance ed elettronico, o perlomeno trasversale.
J: Sì, ma è anche vero che il mondo indie è andato via via scemando.
E onestamente una parte di pubblico indie si è molto avvicinata all’elettronica.
F: E’ così. Ci sono poi delle ragioni personali e artistiche, certi eventi, certi rave nei primi anni Duemila, che hanno attraversato la nostra strada e ci hanno avvicinato all’elettronica.
Un tipo di dubstep, ma anche di EDM, ha proprio preso il posto del rock nell’immaginario e nelle abitudini di una parte di pubblico. Si va ai festival con l’attitudine del concerto?
J: Sì, anche se pochi fanno live come noi. E credo sia una delle ragioni che ha spinto Ultra a proporci un contratto. Il panorama è saturo di dj che schiacciano play e non fanno nulla, invece noi abbiamo un live solido e questo fa la differenza. A parte Bloody Beetroots, i live elettronici in genere sono scadenti, laptop show, non sono cosa ne pensi tu ma per noi sono noiosi.
https://www.youtube.com/watch?v=Ypq9uwWzewg
Sfondi una porta aperta, io odio i live dove c’è uno davanti al Mac che spippola come fosse in camera sua. Sono convinto che una presenza scenica sia essenziale per un buon concerto dal vivo così come per un dj set.
J: Ecco, sì, spesso sono dj abituati a stare in studio. Noi invece veniamo dalla scena hardcore, dai piccoli palchi underground dove suonavi stretto e dormivi nel locale, abbiamo avuto una bella fortuna a fare queste esperienze, perché ora ci permettono di avere più sicurezza anche sui grandi palchi. E i dj set per noi sono una passeggiata, a livello di stress, paragonati a ciò che comporta un live.
Secondo voi quanto conta ora, nel vostro sound, la parte di produzione rispetto a quella di scrittura?
J: Noi abbiamo sempre lavorato parecchio al computer, in studio, adesso semplicemente si tratta di spostare la percentuale di quanto usiamo gli strumenti e quanto i software. Poi c’è il passo successivo, che è la sala prove prima dei tour: lì rivediamo i pezzi e li cambiamo in prospettiva del live. Non sono mai uguali alla versione del disco, chiaramente.
Come è arrivata la Ultra?
J: Abbiamo spedito loro dei pezzi e ci hanno ricontattati. Alla fine del tour seguito all’uscita del disco di remix di “Black Rainbow”, il nostro album del 2011, ci siamo messi a scrivere nuovo materiale, ma non avevamo idee fresche, eravamo stanchi. Abbiamo lasciato sedimentare tutto per circa un anno, durante il quale il dubstep come lo intendevamo noi, quello di scuola inglese per capirci, era stato sostituito da quello da autoscontro di Skrillex. Non ci piaceva più. Così abbiamo portato idee nuove in studio e siamo usciti con pezzi più personali, che abbiamo poi spedito a varie etichette. Ultra ci ha risposto, gli erano piaciuti i brani e hanno deciso farci un contratto per “Ep1” e, se tutto andrà bene, anche per il prossimo, che è già pronto.
28.05.2014