E’ già passata più di una settimana dalla #deejaytimereunion, un pomeriggio in cui siamo tutti ritornati indietro nel tempo per due ore, una puntata speciale del leggendario show radiofonico degli anni ’90 con Albertino, Fargetta, Molella e Prezioso ai vecchi posti di combattimento, i Fab Four della dance italiana ancora insieme a riproporre la musica, i jingle, il modo di fare radio che ha rivoluzionato tutto. Oggi pubblichiamo le foto di quell’elettrizzante giornata, eravamo in radio e ci siamo divertiti ed emozionati, io, Marco Mazzi (che quegli anni li ha vissuti in prima persona), Giulia (che è più giovane di me e forse ha ricordi più vaghi) e Andrea, che ci ha aiutati proprio con le foto.
A essere onesti, questo genere di report fotografico va postato il più presto possibile, per cogliere le numerose impressioni e i click “a caldo” dei lettori. Ma, vista la portata dell’evento, i tanti post e articoli, e l’oceano di commenti che hanno invaso il web nei giorni scorsi, ho preferito prendermi il mio tempo e ragionare un po’ su quanto ho visto, sentito, anzi vissuto, perchè per me è stata un’esperienza senza dubbio magica: volente o nolente, per me quel programma, quella musica, in quegli anni, sono stati formativi e decisivi.
Foto di Andrea Evangelista
Apocalittici e integrati
Ho letto commenti pieni di entusiasmo, critiche feroci su come Alba e i suoi siano stati la rovina della dance in Italia, ho visto fan prendere ferie e venire sotto la radio con gli striscioni, e poi ancora i post di chi vorrebbe dire che amava la trasmissione ma non può, perchè non è figo dirlo, nemmeno oggi. A me buona parte di queste fazioni fanno una gran tristezza, chiedo scusa se urto la suscettibilità di qualcuno ma è così. Chi c’era allora, oggi avrà come minimo trenta, trentacinque anni, e non saper vedere con obiettività una cosa così lontana nel tempo è davvero triste.
Credo che analizzare il Deejay Time non sia così semplice, da un lato perchè il tempo fa sedimentare i ricordi ma spesso li intrappola in uno stereotipo che ci creiamo rispetto a una situazione; dall’altro perchè apocalittici e integrati (per citare Umberto Eco), detrattori e fan, sono schieramenti difficili da muovere: chi odiava il programma all’epoca, difficilmente si è convinto del contrario oggi, e chi ne era innamorato non ammetterà mai certi difetti. Sicuramente, il livello tecnico e le trovate dello show restano tutt’oggi ineguagliate: disco, jingle, sequenza di dischi mixati, parlato veloce, slogan, tormentoni, ironia e clima surreale, tutto era così rivoluzionario che sembrava di andare a duecento all’ora, mentre tutti gli altri andavano a venti. Oggi, grazie a quel modo di fare la radio, e alla spinta propulsiva che ha dato alla radiofonia, tutti vanno a centocinquanta all’ora, ma loro vanno sempre a duecento, non ce n’è. Sono convinto che forse solo Alto Gradimento, la trasmissione di Arbore e Boncompagni degli anni ’70, abbia inciso così tanto nel modo di fare radio che sarebbe venuto dopo.
“Commerciale” vs “Underground”
Il Deejay Time ha sdoganato un sacco di “commerciale”, di musica fatta in serie e di hit buone per le giostre, per le nostre estati, per le discoteche della provincia, creando oltretutto una sorta di “cartello” di etichette e artisti. Ma era la stessa cosa che oggi accade, a livello globale, con EDM e simili, con la differenza che oggi mezzi, strumenti e marketing riescono a rendere tutto più appetitoso, più cool, e anche roba come Alesso sembra decente (riparliamone tra cinque anni). Ma è anche vero, e spesso sembriamo dimenticarcene (lo stereotipo di cui parlavo prima), che Albertino passava i Prodigy, David Morales, Todd Terry, i Chemical Brothers, Heller & Farley nel prime time pomeridiano. In Italia. Nel 1994. E faceva milioni (milioni!) di ascoltatori. Io mi ricordo cos’era l’FM italiano nel ’94, e il Deejay Time, se avevi un’età sotto i quaranta e amavi la musica, era un’oasi in un deserto di Aleandro Baldi, Ruggeri, Take That, rock radiofonico, pop e r’n’b (e ringraziando il cielo la musica degli anni ’90 ha prodotto molte cose buone anche in ambito mainstream). La stessa cosa che, peraltro, succede da qualche tempo con 50 Songs Everyday, con tutta la nuova dance in programmazione (Gorgon City, Disclosure, Major Lazer, Claptone) in un panorama che altrove propone a rotazione Modà, One Direction, Emma. Volete fare cambio? Accomodatevi (con tutto il rispetto per i cantanti che ho menzionato).

Sociologia da strapazzo
Quello che non ho letto da nessuna parte (se non in questo meraviglioso articolo di Fabio De Luca su Rockit, in cui però si parla più che altro della festa di Time Records, evento che ha idealmente proseguito la reunion, quella stessa sera) è che il successo del Deejay Time va inserito in un quadro sociale e culturale molto preciso, quello dell’Italia degli anni ’90. Un periodo in cui il futuro stava arrivando, e in cui si avvertiva la “doppia velocità” di un Paese che da una parte comunicava al cellulare, e dall’altra alla cabina del telefono; un’Italia che si faceva dosi massicce di TV privata (Mediaset a quei tempi si chiamava Fininvest ed era davvero un altro pianeta rispetto alla Rai, ancora impaludata in format vecchi e sorpassati; poi arrivarono addirittura Mtv e Tele+, fine dei giochi per tutti). Non è un caso che, oltre al Deejay Time, l’altro fenomeno mediatico dell’epoca fosse Non è la Rai (sempre Boncompagni). Il Deejay Time era capace di stimolare con una quantità e una velocità di input che precedevano l’era del web, tutto correva rapido e dinamico, nulla era e nulla doveva essere normale. Inoltre, tutta la musica nuova passava di lì, sapevi che loro mettevano le figate, le novità che tu avresti trovato in negozio un mese dopo, e dovevi segnarti il titolo e tenere il dito sul tasto “play” per registrare veloce come un pistolero (i famosi ADC, gli Amici Della Cassettina). E ancora, tutto un universo fatto di familiarità tra ascoltatore e conduttore, di slogan e di comunicazione così diretta che ti faceva sentire parte di un gruppo, di una comunità. Oggi, va da sè, sono cambiate troppe cose, le condizioni sono diverse e non esiste più il modo di costruire qualcosa di simile. I gruppi si creano su Internet e non si riesce a fidelizzare i followers come si fidelizzavano gli ascoltatori. C’è troppa scelta, troppe distrazioni, troppo rumore di fondo. Il Deejay Time è stato ciò che è stato anche perchè è arrivato nel momento giusto.
Ma insomma, ne valeva la pena o no?
La mia risposta è sì! Perchè abbiamo vissuto un pomeriggio speciale, perchè siamo stati tutti col fiato sospeso per due ore. Io non sono un fan della nostalgia; anzi, quando mi chiedono “in che altra epoca ti sarebbe piaciuto vivere?” rispondo sempre “nel futuro!”. Però, per una volta, ce le siamo potuta permettere, la nostalgia. Tuttavia, ragionandoci una settimana dopo, e con gli entusiasmi un po’ attenuati, devo ammettere che è stato bello proprio perchè è stato come rivedere le vecchie foto, o parlare dei vecchi tempi con un amico, con una ex-fidanzata. E’ meraviglioso per due ore, poi ti rendi conto che oggi saresti ridicolo a vestirti come nelle foto, a fare le cose che facevi a quei tempi con gli amici, e che con quella ex-fidanzata, se è finita, ci sarà stata una ragione. Ne è valsa la pena, certo, ma anche per capire come e perchè è finita, quali errori sono stati fatti, e come siamo cambiati da allora. Io, più del Deejay Time 2.0 che molti si sono auspicati, voglio una nuova figata che mi faccia dire “Wow! E’ meglio del Deejay Time dei tempi!”.
12.12.2014