Si intitola ‘Dirty Dancing’ (Klasse Wrecks And We Make It) il nuovo libro fotografico di Mattia Zoppellaro, 115 pagine che documentano e raccontano la stagione irripetibile dei free party e delle feste tekno, da non identificarsi con i rave, concetto che l’autore circoscrive a “chi va a ballare nei posti sbagliati”. Come è nato questo libro, perché la scelta di dedicarsi ai freeparty, i pro e i contro delle nuove tecnologie applicate alla fotografia: di questo e tanto altro Zoppellaro ha parlato nella sua intervista con DJ Mag Italia.

Come e quando hai iniziato a fotografare la scena elettronica?
Da piccolo il mio più grande sogno era fare il calciatore, ma purtroppo sono negato per gli sport; dopo aver visto ‘Arancia Meccanica’ di Stanley Kubrick decisi che per fare il dittatore di emozioni sarei dovuto diventare regista, ma sfortunatamente non ho la testa per gestire un set. Quando un amico mi ha trascinato ad una festa tekno (il termine “rave” è per chi va a ballare nei posti sbagliati) avevo per caso con me una macchina fotografica. Lì ho realizzato che il mio cuore si accendeva con un clic.
Che cosa trovi o trovavi in questo contesto che non trovavi altrove?
Un movimento dove tutti si potessero esprimere. Dai dj che suonavano, agli organizzatori che occupavano spazi improbabili, alla gente che usava l’abbigliamento come forma di comunicazione. A colpirmi fu soprattutto la possibilità che ognuno potesse dire la sua. L’ethos Do it Yourself mutuato dal punk. E al tempo stesso l’onestà di un ambiente che non accettava tutti e comunque, dove dovevi guadagnarti i tuoi spazi e i tuoi diritti.

Perché l’idea di un libro e perché proprio dedicata a questa fascia temporale?
Credo di aver scelto la carriera fotografica rispetto a quella musicale proprio per la possibilità di poter toccare ciò che si produce. Possiamo tenere in mano una stampa, annusarla, non possiamo fare lo stesso con una canzone. Per il mio modo di intendere questa disciplina, il format libro è l’output ideale. Il periodo che va dalla fine degli anni ’90 ai primi ’00 è stato scelto per il semplice motivo che è stato quello che ho frequentato.
Domanda banalissima: quando scatti che cosa cerchi di catturare?
Le domande non sono mai banali, possono esserlo le risposte… Fotografo per un unico e semplice motivo: conoscere meglio il mio soggetto.
Quanto è cambiato il tuo lavoro passando dall’analogico – se così si può dire – al digitale?
Porto meno attrezzatura e non vado in para quando devo prendere un aereo perché ho paura che i rullini vengano passati sotto i raggi X, con il rischio che si rovinino. È fisiologico che in questo periodo ci sia un ritorno verso la pellicola, c’è voglia di grana, un po’ come per la musica dove si ricerca il fruscio del vinile dopo un lungo periodo di assordante “pulizia digitale”. Personalmente sto tornando all’utilizzo della Hasselblad analogica, di cui adoro soprattutto il formato quadrato. Per il resto credo che la miglior macchina fotografica sia quella che hai con te in quel momento.

Quanta Italia c’è nel tuo libro?
Mai abbastanza… ho vissuto per molto tempo a Londra e mi sposto molto spesso all’estero per lavoro o per vacanza e tutto ciò rafforza la mia convinzione che l’Italia sia il mio paese preferito. Non (sol)tanto per la qualità della vita, quanto piuttosto per la sua affinità al mio modo di essere, soprattutto fotografico. Nel libro l’Italia è presente soprattutto attraverso le due capitali della scena tekno – con la k – del periodo, Bologna e Torino.
Qualche consiglio a chi volesse diventare un fotografo “specializzato” in eventi elettronici?
La fotografia di clubbing o rave non è mai stata per me un’operazione commerciale, la fotografia di musica sì. Il consiglio che mi sento di dare è di ascoltare la propria voce, evitando di compiacere i soggetti.
Progetti futuri legati e non a questo settore?
Il mio sogno sarebbe aprire un’agenzia specializzata in campeggi presso festival di musica reggae che si svolgono in montagna. Si chiamerà “Opinioni o Visioni?”.
14.12.2021