Era la serata più chiacchierata dell’anno ancora prima che aprissero le porte. Il clubbing non dovrebbe per sua natura essere classista, razzista, discriminatorio. Poi esistono le regole di ogni locale: la selezione all’ingresso, le politiche messe in atto da ogni direzione, che sono discutibili dall’esterno ma inequivocabili e inopinabili. Perché rientrano nell’economia di un club e nel modo in cui chi ci lavora ha deciso di gestirlo.
Per quelli che vivono la musica come la vivo io, il clubbing ha rappresentato e rappresenta un modo di slegarsi da certe costrizioni, da certe scatole che inevitabilmente la società ci impone, a favore di una libertà che si consuma nelle ore in cui la musica unisce tutti e azzera ogni dislivello tra le persone, messe in bolla da un battito che crea un’anima collettiva unica, difficile da descrivere. E tutto questo succede ancora, succede nonostante le cose cambino e nonostante in vent’anni di esperienza (da quando vivo in prima persona questo mondo) il clubbing sia diventato molto altro rispetto alle prime volte in cui mettevo piede in discoteca. È ormai un sistema consolidato e una moda di massa. Ciò implica anche che i dj vedono la propria professione in modo differente (pure dal punto di vista strettamente economico) e che quel confine che separava i club per veri appassionati da quelli per fruitori, diciamo così, più superficiali, si è molto assottigliato. Qualcuno vive male questa trasformazione, altro ne colgono le opportunità. Ed è proprio una bella opportunità quella di avere Dixon a Milano un martedì sera qualsiasi, a dicembre, poco prima di Natale. Una serata che non sarebbe stata così chiacchierata se non fosse proprio per la location. Perché ad ospitare il dj tedesco fondatore di Innervisions non è stato un locale underground dalla forte tradizione e dal taglio integralista, ma Armani Privé, nell’immaginario collettivo milanese un club con la puzza sotto il naso e dalla selezione musicale imbarazzante. In realtà, nelle ultimi stagioni, una realtà che ha saputo reinventarsi con una programmazione di qualità inserita nella cornice di un locale ristrutturato con gusto, dove sicuramente traspare l’aura del lusso e dell’esclusività (siamo pur sempre da Armani, al centro del quadrilatero della moda e in uno spazio che si inseriesce tra un hotel lussuoso e un ristorante molto esclusivo) ma dove una attenzione particolare viene riservata anche all’impianto e alle condizioni che rendono possibile una grande serata sul dancefloor.

Tutto questo naturalmente non è bastato per far cadere i pregiudizi che nelle ore prima della serata hanno alimentato buzz e bufale sui social. Storie come un costo d’ingresso a 108 euro. In realtà, bastava chiedere ai responsabili del club per scoprire che si entrava con 50 euro in riduzione – e quasi tutti i biglietti sono stati venduti a questo prezzo – oppure a 75. Certo, non sono prezzi popolari. Certo, le consumazioni non hanno prezzi da circolo ricreativo dopolavoro (ma nemmeno proibitivi, e se la mattina dopo mi sveglio senza mal di testa ne vale la pena). Certo, per chi vuole avere un tavolo il costo lievita, ma tutto rientra nell’economia di un locale di lusso, ed è un modo di intendere il clubbing che esiste da sempre, anche in luoghi che hanno fatto la storia della nostra cultura e anche in luoghi che si fregiano di essere decisamente meno posh ma poi adottano sistematicamente la politica dei tavoli e della selezione. Ora, questo dovrebbe essere un report su una serata di musica, e se vogliamo parlarne posso dire che Dixon si è comportato in modo impeccabile, abilissimo a leggere la pista con un set travolgente, che ha concesso in pari misura ciò che si aspettava da lui, tanti viaggioni e i pezzi con i grandi vocal al momento giusto (un clamoroso remix di ‘Good Luck’ dei Basement Jaxx a un certo punto ha fatto drizzare le antenne a molti). Il pubblico ha riempito il club e il dancefloor, le persone in pista sorridevano ed erano divertite, senza casini, senza le situazioni angoscianti di chi ti sta addosso, merito probabilmente anche del fatto che all’Armani Privé i tavoli sono disposti tutto intorno al locale e anche il soundsystem ha degli speaker posizionati ad hoc per questa soluzione architettonica. Note più che positive anche per il warm up. Dunque, dal punto di vista strettamente musicale, tutto benissimo. Ottima serata. Anzi, personalmente posso dire una delle più divertenti degli ultimi mesi a Milano. Mi dispiace deludere chi si aspettava la marchettona.

Tuttavia, la lunga premessa all’inizio di questo articolo lascia presagire che qui non stiamo parlando soltanto di musica. La conferma è la presenza, in serata, di diverse “personalità” della notte milanese: dj, giornalisti, uffici stampa e appassionati vari (pure il mitologico “rasta che fa le foto” in giro per via Manzoni, ormai il meme vivente dell’anno in città, cercatelo sui social). Perché tutti sono curiosi di sentire Dixon, certo. Ma soprattutto sono curiosi di vedere che succede con Dixon-che-suona-da-Armani. Si è creato un cortocircuito abbastanza classico fin dai giorni prima dell’evento: le bufale sui prezzi, liste leggendarie e inaccessibili, “si dice che…”, e poi ovviamente il comportamento snob di chi per assurdo si fa razzista al contrario. Perché un posto così fighetto non può avere un dj così vero. Se vai all’Armani devi ingozzarti di reggaeton e vocalist stile anni ’90, di house con i vocal brutti e le congas e spendere una fortuna per cercare di broccolare qualche modella. Invece no. Ci trovi Dixon, Ci trovi Black Coffee, Marco Carola, Tensnake (domani sera). Qualcosa che sposta gli equilibri in una città in cui la scena dei club sta facendo fatica a trovare una quadra, dopo un periodo di eccessi di proposte (non che me ne stia lamentando, per carità). Ma insomma, se è pur vero che il pubblico che mediamente – posso immaginare – va in un club del genere non bada a Dixon o al resident che pompa reggaeton, io sono sempre felice di essere smentito, e che ci sia una programmazione di qualità, organizzata da un bravo direttore artistico che punta sulla buona musica e lo fa avendo un budget (immagino) consistente, educando a qualcosa di più della playlist da top 40 di Spotify. Per come la vedo io, più club di qualità ci sono nella mia città, più sono contento. E soprattutto, non mi piace ragionare per scatole, per categorie chiuse. Da fiero frequentatore di club che hanno portato avanti una mentalità underground e innovativa, non mi sono mai permesso di guardare dall’alto in basso chi propone altro, chi ama altri tipi di orpelli e adotta altri criteri di selezione della propria clientela. E la vita e l’esperienza nei locali di molte città nel mondo, e di situazioni anche diversisssime tra loro, mi ha insegnato che spesso l’apparenza inganna, e che magari c’è più interesse e gente più piacevole laddove non me lo sarei aspettato, e invece ho visto in troppe occasioni serpeggiare un brutto “pensiero unico” dove credevo che la libertà di espressione fosse la prima regola.

Ecco, vaffanculo a chi aveva dei pregiudizi: Armani Privé ha organizzato una serata coi fiocchi, in un club dove si sta bene, con un dj top al mondo. Questo è un fatto. Ma la club culture è sicuramente anche politica: so già che molti controbatteranno su come un competitor del genere possa inquinare e gonfiare i cachet, rendere tutto ancora più strozzato in un mondo dove il booking dei dj sta lievitando in modo imbarazzante. Queste sono logiche di mercato. Sfido chiunque (artisti, promoter, booking, management) a tirarsi indietro di fronte alla prospettiva di maggiori guadagni. Ma sono soltanto supposizioni: io non conosco le cifre dell’altra sera e posso solo fare ipotesi. Il mio lavoro è quello di riportarvi ciò che vedo in una serata, di leggere tra le righe e, se sono bravo, di fornirvi degli strumenti per capire al meglio tutte le sfaccettature di questo mondo fantastico. Per fare tutto questo, sono prima di tutto un appassionato. E da appassionato, posso solo dire che mi sono divertito parecchio ed è stata una bella serata. Il resto sono fronzoli, pregiudizi. Alimentati spesso a priori, prima ancora della serata, da un senso di appartenenza che porta ancora oggi, nel 2017 (quasi ’18!) a vedere con sospetto tutto ciò che si muove al di fuori di una comfort zone i cui confini sono sempre più liquidi, per citare Bauman. Un senso di appartenenza che non è sbagliato, ma che andrebbe vissuto con maggiore maturità e serenità.
21.12.2017