Un disco, un fumetto, un film. Dj Aladyn presenta un progetto ambizioso e multimediale, ‘Scary Allan Crow’. Un disco che vede il ritorno di Aladyn con un album di dodici tracce inedite, ideale colonna sonora del fumetto ideato dallo stesso Aladyn insieme a Lorenzo Palloni e da cui prenderà forma un film. Il volume di Scary Allan Crow uscirà per Edizioni Inkiostro e verrà presentato in anteprima assoluta a Lucca Comics & Games, sarà racchiusa in una prestigiosa edizione limitata in vinile color blood 180g, le cui 300 copie verranno distribuite da Kappadistribution.it. È l’occasione giusta per parlare con Dj Aladyn di questo progetto, della radio, delle svolte che può prendere una carriera e di come se la passa il mondo del turntablism.
Sei tornato con un nuovo progetto discografico piuttosto originale. C’è un disco, un fumetto e una parte video. Ci racconti l’idea alla base di questo lavoro sfaccettato e complesso?
Ho in testa da anni l’idea di questo personaggio, Scary Allan Crow, e l’obiettivo era crearne un fumetto horror. Ho incontrato lo scrittore e fumettista Lorenzo Palloni perché è un fan di Tropical Pizza, il programma di cui curo regia e parte tecnica ogni pomeriggio su Radio Deejay, siamo rimasti in contatto e gli ho proposto la mia idea. Di fatto stiamo lavorando al progetto da quasi due anni, i tempi di lavorazione dei fumetti sono lunghissimi. Strada facendo mi sono immaginato anche un’ipotetica colonna sonora del mio nuovo disco, qualcosa di molto diverso da tutto ciò che ho fatto finora.
Chi sono i featuring presenti sul disco?
The Spooky Scientists e Roberto Pace. The Spooky Scientists è un progetto mio e di Marco Trentacoste, musicista con cui sono amico da tempo. Roberto Pace è un grande pianista italiano, ora in tour con Ermal Meta, con lui ho fatto già diverse produzioni e mi sta aiutando come arrangiatore anche su altre uscite che sto preparando.
Questa tua passione per l’horror non è nuova, l’hai sempre espressa nell’inquietundine che metti nelle tue produzioni e anche in radio infili qua e là spezzoni, campionamenti e jingle che hanno quella chiave. Come si traduce l’horror in musica?
Sono amante del “mondo dark”, per usare una definizione molto ampia, che va dalle colonne sonore al mondo del rock industrial a tanto altro.

Chi sono i tuoi riferimenti?
Colleziono tanti vinili di colone sonore horror, uno dei classici è John Carpenter che forse è il mio riferimento più grande, perché da Halloween a Essi Vivono a 1997 – Fuga da New York ha un po’ rivoluzionato le colonne sonore del genere. Carpenter ha introdotto un utilizzo massiccio dell’elettronica in un contesto, quello cinematografico, in cui gli arrangiamenti orchestrali hanno sempre fatto la parte del leone. Anche a costo di sembrare lo-fi, è andato per la sua strada, e il tempo gli ha dato ragione perché oggi è considerato un maestro, sia come regista che come compositore.
Vero. Probabilmente faceva di necessità virtù, perché comporre con synth e tastiere ha un costo sensibilmente inferiore di un’orchestra di trenta elementi, ed è diventata la sua firma. Senti, hai sempre cercato di postare il confine anche nei tuoi dj set, prima implementando lo scratch nei set di musica da ballare, poi aggiungendo la manipolazione dei video live. Come ti viene?
Il trick è riuscire a portare questo mondo a un pubblico più ampio rispetto a quello degli entusiasti. Ho sempre avuto la paranoia del chitarrista che fa una serata di assoli e logicamente non è una cosa divertente per chi non è super appassionato. È giusto trovare un incastro tra la musica da ballo e il tecnicismo, mi piace sperimentare ma devo essere capace di tenere la gente incollata alla pista e a quello che faccio. Le persone devono divertirsi anche se l’obiettivo è fare in modo che si incuriosiscano ai video, ai tagli veloci, agli scratch dove inserisco le citazioni o i frammenti di canzoni. A volte vedo i miei colleghi turntablist molto “lì”, molto fermi su questo fatto dello scratch che diventa pura tecnica ma senza un’applicazione a qualcos’altro, io penso che intorno alla tecnica vada sviluppata un’idea che faccia divertire noi dj ma anche il pubblico.
Oltretutto mi sembra che gli anni ’90 siano stati il momento d’oro dello scratching in quanto a popolarità, e aveva un senso tentare di imporre questa pratica come una cultura, mentre oggi le cose sono molto distanti da quel periodo.
Negli anni ’90 l’attenzione verso lo scratching era più alta, era cool, le finali dei campionati come il DMC erano nei club, i vincitori ottenevano contratti discografici, tour di un anno, visibilità. Oggi tutto questo mondo si è spostato perlopiù in Rete e c’è poco contatto con le persone.
Hai visto che quest’anno il DMC l’ha vinto un ragazzo di dodici anni?
Certo, DJ Rena! Lo seguivo da prima. È la nuova generazione. Oggi se hai voglia di imparare hai la fortuna di avere internet e un tutorial lo trovi sempre. Ci sono tutorial che insegnano ogni tecnica, ogni trick, ogni dettaglio. Ai miei tempi era già difficile reperire le VHS con le gare, in più dovevi costantemente lavoare di rewind e fast forward per rivedere le tecniche, capire esattamente il movimento che era stato fatto e poi passare dodici ore al giorno a cercare di replicarlo uguale. Magari poi da un errore nasceva una nuova tecnicca che rivoluzionava tutto, però oggi sicuramente un ragazzo di dodici anni ha dalla sua diverse tecnologie che lo avvantaggiano. Sia chiaro, se non hai talento non arrivi da nessuna parte, oggi come ieri, non sto togliendo nulla alla bravura di Rena o di tanti altri giovanissimi. Ci sono diverse ragazze che oggi approcciano il turntablism, ci tengo a sottolinearlo.
Tu non ti sei mai posto problemi a passare dal “sacro” vinile alle nuove tecnologie.
Mi piace sempre e comunque sperimentare, come dicevo prima. Anche con i formati. Oggi utilizzo Serato che mi permette di usare audio, video, fare qualsiasi trick e avere comunque la manualità e il tocco del vecchio vinile. Però ho anche il vantaggio di non portarmi più appresso borse e borse di dischi, e in digitale posso caricare mash up, edit e versioni particolari realizzate da me.
Da molti anni sei a Radio Deejay come regista di molti programmi di cui curi anche i jingle. In radio riesci a esprimere la tua creatività?
Quando sono arrivato qui mi hanno assegnato a B-Side con Alessio Bertallot e Tropical Pizza con Nikki, con cui sono in onda tutt’ora, ogni pomeriggio dalle 15.30 alle 17. Quindi due programmi prettamente musicali. Infatti ho sempre in regia almeno un giradischi perché alcune cose mi piace farle proprio live, con il rischio di qualche imprecisione ma con tutta la bellezza di poter improvvisare e gestire la strumentazione con cui ho grande familiarità per creare qualcosa di originale anche in una radio dai grandi ascolti come Deejay. È anche un modo per non cadere nella routine, visto che siamo in onda ogni giorno. Bisogna sempre restare freschi e curiosi quando si fa un mestiere come il nostro.
In vita tua hai lavorato con moltissimi artisti. C’è qualche esperienza che ricordi con particolare emozione?
Probabilmente il tour di Capo Horn con Jovanotti nel ’99. Successe grazie a Stefano Fontana che mi segnalò a Lorenzo che cercava un dj per il tour europeo. Stefano l’avevo conosciuto a Station One, una radio che durò dal 1997 al 1999 ma fu un’enorme fucina creativa. Registrai un provino su VHS e venni preso, la prima data fu il Montreux Jazz Festival e poi una serie di concerti da palazzetto in Europa e il tour in Italia, era come arrivare in serie A. Facevo sia l’apertura dei concerti sia il dj che scratchava sui pezzi durante lo show. Durante il tour ero in stanza con Saturnino che mi trattava proprio bene, era come un fratello maggiore.
Tu ai tempi cosa facevi?
Le prime gare, qualche serata ma tutto nella mia zona. Facevo ancora le feste nel bar dei miei genitori. Avevo iniziato a collaborare con Radio Capital ma quell’esperienza con Jovanotti mi fece capire che si stava muovendo qualcosa. Il classico pensiero “sta succedendo”.
E da lì?
Da lì ci furono le due vittorie al DMC con i Men In Skratch, io, DJ Myke, Yaner e Franky B. Due anni culminati nella finale di Londra. Subito dopo arrivò Radio Deejay. Gli anni dal 1999 al 2002 sono quelli che mi hanno svoltato la vita, era il treno che dovevo prendere. Anche la radio, per dire, ai tempi potevo fare lo snob e sottovalutarla perchè mi andavano bene altre cose, invece tenere anche un lavoro quotidiano mi serviva, e mi serve, per avere un equilibrio e per tenermi aggiornato su tutto quello che succede nella musica. In questo la radio è un mezzo favoloso.
In tutte queste attività, hai mai avuto un momento di stanchezza rispetto a aquello che fai, un calo di entusiasmo?
Beh, succede. Con i dischi ad esempio non sono costante, non sono un producer che fa un disco all’anno. Quando sono ispirato faccio un album, poi magari me ne sto in silenzio per qualche anno. Anche in radio può succedere la giornata in cui sei qui ma non ne vuoi sapere, le cose non girano. È normale. È umano. Però non ho mai vuto la tentazione di mollare la musica, se è questo che intendevi. Amo quello che faccio, sono fortunato e sono molto contento.
31.10.2017