Ecco. L’ho scritto. E già vi leggo nel pensiero: “quindi stai dicendo finalmente che un tempo c’erano i veri dj che sapevano far ballare ed emozionare il pubblico e oggi le cose sono peggiorate?” No. Non scherziamo. La nostalgia non è un sentimento che mi appartiene più di tanto, non ne ho simpatia e penso che il passato sia sempre migliore nei nostri ricordi rispetto a com’era davvero. Nonostante sicuramente la club culture di ieri abbia dei meriti indiscutibili, tra cui quello di essere sorretta da un’autentica passione di chi amava questa musica senza la gloria né i soldi che girano oggi, e soprattutto quello di aver gettato le fondamenta di una cultura diretta progenitrice di ciò che oggi viviamo tecnicamente migliorato, amplificato, organizzato e ramificato in ogni deriva e gusto possibile. Ma credo fortemente che la nostalgia non dovrebbe essere contemplata da chi si occupa di una musica che per sua natura è connaturata con il nuovo, con il futuro, anche oggi che ha una storia ormai lunga e sedimentata. E dire che non ci sono più i dj di una volta non significa per forza di cose che fossero migliori di quelli di oggi.

Allora vi prendo in giro?
No. Se il titolo di questo articolo non nasconde un certo grado di provocazione, dietro a un’affermazione così forte c’è molto di cui disquisire. Mettiamo subito sulla bilancia la domanda da un milione di euro: era meglio prima? O è meglio oggi? Di sicuro, l’idea del dj con la sua sacra borsa di vinili è un’immagine fortissima che ha forgiato l’immaginario collettivo di tutti noi. Rappresenta ancora oggi qualcosa di donchisciottesco, il dj come l’eroe che deve far ballare tutti usando come armi due giradischi, un mixer, un paio di cuffie e una borsa con 50, 60 sceltissimi pezzi, dischi introvabili, rarità. Era la sfida a chi riusciva ad accaparrarsi l’unica copia in circolazione del promo con cui conquistare il dancefloor. Tutto bellissimo. Ma a risentire oggi in giro per il web alcuni di quei set leggendari, emergono prepotentemente i limiti di quel tempo: i dischi che saltano, quelli che suonano male, senza contare che anche il miglior dj del pianeta non era immune a sbagliare qualche passaggio qua e là. D’altronde, con i dischi in vinile i cavalli, gli errori nella messa a tempo dei due dischi, erano all’ordine del giorno. E poi, come la mettiamo con le opportunità infinite che sarebbero venute più avanti? Gli edit, le personalizzazioni, i loop, la possibilità di portarsi appresso una borsa piena di CD pieni di tracce – tutte utili – invece dei 50-60 vinili; e poi i software con cui mixare e modificare la musica in tempo reale, le SD, le USB con migliaia di brani a disposizione. E il futuro sembra soffiare un vento che porta la voce dello streaming in console. Inutile discutere: è evidente che la bilancia pende dal piatto della modernità. Eppure i dj non sono più quelli di una volta.

Un producer non è un dj. Lo diventa
Un tempo, i dj erano degli appassionatissimi di musica che sapevano tutto, conoscevano ogni pezzo, erano dei veri e propri malati di musica e di collezionsimo musicale. Un po’ per forza di cose, un po’ perché la conoscenza tecnica e la cultura musicale erano i due veri fattori che facevano la differenza. Poi i dj sono diventati produttori. E poi i ruoli si sono definitivamente ribaltati: i ragazzi oggi iniziano proprio da lì, dai software, dalle griglie di Ableton e Logic, non dalle ore spese nei negozi. Sono producer che diventano dj. E questo cambio di prospettiva non è indolore. Si sente. Il mondo è pieno di star che fanno un lavoro fantastico e intrattengono milioni di fan, ma lo fanno in modo impensabile per i dj di una volta: suonano i loro pezzi con scalette autoreferenziali e assolutamente prevedibili. Facendosi aiutare, laddove la creatività latita, da effetti speciali spettacolari. Il problema non è tutto questo, il problema è che qualcuno – di solito vecchi barbogi della vecchia scuola – sostengono che tutto questo sia il problema. Ma chi ha ragione in questo cortocircuito?
Hanno tutti ragione
Come sempre, si finisce a dividerci per tifoserie. Ma guardiamo in faccia la realtà. Ci sono sicuramente tantissimi aspetti della club culture di oggi che sono infinitamente migliori di quanto non fossero ieri: le possibilità della tecnologia e il fatto che i dj abbiano raggiunto uno status sociale accettato e considerato, e che vengano a tutti gli effetti riconosciuti come autori di successi planetari che hanno cambiato l’industria della musica – e non solo – è estremamente positivo. È una splendida conquista. Non serve fare i detrattori, è ingiusto e controproducente. Però è anche vero che spesso si sentono troppi set con il pilota automatico, e se è inaccettabile al disco-bar in provincia, è gravissimo nei mainstage dei festival o nelle line up dei super club mondiali.

Ma perché suonano tutti gli stessi pezzi?
Mi sento fare questa domanda molto spesso. Giusto qualche giorno fa, mentre attendevo un aereo che avrebbe tardato parecchie ore, mi è stata posta da una persona con cui ho stretto conoscenza e che, da appassionata, mi faceva domande curiose sul nostro mondo. Mi sono sentito imbarazzato. Perché si paga un biglietto per un evento di alto livello e poi ci si trova a sentire dei set che non hanno nulla di speciale, popolati di brani che anche il ragazzo del disco-bar (set up tutto crackato, cachet 100 euro e tre free drink) possiede. Si va sul sicuro, chiaro. Ma suonare le hit da top 40 alla radio, e soprattutto suonare diversi brani già suonati dai colleghi nei set precedenti, è irrispettoso verso se stessi e verso il pubblico. Significa non avere cura nella playlist, significa non avere margine per cambiare un dettaglio, significa curare la musica meno di tutto il resto. E in questo, sì, non ci sono più i dj di una volta. O no? I creativi esistono, più numerosi che mai: The Black Madonna ha una cultura musicale vastissima, e si sente; The Gaslamp Killer è sempre imprevedibile e fa magie in console; al Sònar mi è capitato di sentire set stratosferici, da Octo Octa al classico Laurent Garnier. Ma anche in territori più canonici, uno che riserva sempre qualche sorpresa è ad esempio David Guetta (nel suo tour lo scorso inverno fu davvero formidabile in questo senso); recentemente ho visto Albertino, in un contesto “facile” in cui avrebbe potuto andare di sole hit da classifica, suonare un pezzo ogni due minuti su tre lettori e con diverse chicche non proprio collaudate. Insomma, la creatività e il rispetto di questo lavoro ci sono eccome. Non ci sono più i dj di una volta, è vero, dobbiamo essere più critici con chi prende cachet stellari per farci ingoiare un’ora di ritornelli famosissimi conditi da drop prevedibili come la trama di un film porno. Perché allora, davvero, basta spendere due lire per il ragazzo alle prime armi che fa lo stesso sport. I valori aggiunti sono altri, direte: la star, il dj set vissuto come concerto, la produzione. Tutte cose che da queste parti abbiamo sempre apprezzato e difeso. Ma a maggior ragione, per non dare spazio a chi rimbrotta facile sui social che “quando c’eravamo noi” era tutto più figo, siamo più esigenti con i nostri eroi. Non ci sono più i dj di una volta. Ce ne sono di nuovi. Migliori, peggiori, semplicemente diversi. Ma facciamo la nostra parte affinché siano sempre perlomeno bravi.
25.06.2018