• MERCOLEDì 29 MARZO 2023
Esclusiva

“Il dj è un lavoro sopravvalutato”

Una confessione molto interessante.

Foto: Cobra Art

Poco tempo fa, un amico e professionista affermato del settore mi ha detto una frase che mi ha fatto molto riflettere. “Il dj è un lavoro sopravvalutato”. Sono parole forti, dette in un contesto di amarezza diffusa (stavamo commentando cosa non ci piace della scena elettronica attuale), certamente una provocazione che però non mi ha fatto dormire tranquillo parecchie notti. E se avesse ragione? E se fosse tutto un grande bluff? E se fosse tutta una grande truffa dietro la quale si nascondono manager senza scrupoli, arricchiti, spesso improvvisati e schiaccia-tasti egocentrici pieni di sé? E se fosse veramente tutto perduto? E se fosse tutto rimasto scritto nelle decine di libri che arredano la mia stanza? No, non posso arrendermi a questa idea. Devo ritrovare il sonno. Ci deve essere una continuità. È soltanto questione di accettare le anomalie e le falle di un sistema globalizzato, complesso e quindi fallibile. Che poi a pensarci bene possiamo veramente parlare di fallibilità? Non stiamo parlando solo di musica da ballo? Industria del divertimento la chiamano. O club culture. Dipende da che lato la si guarda, se siamo con i rossi o con i blu. Dove la storia funziona, dove il bipolarismo è stato ampiamente superato (caso raro in cui non è poi così male) si parla di cultura del divertimento.

Il jazz negli anni Trenta e Quaranta, il blues negli anni Cinquanta. Il rock negli anni Sessanta. La disco music negli anni Settanta. L’elettronica negli anni Ottanta. Attraverso la musica nei decenni si sono consumate le più grandi rivoluzioni culturali del novecento. Il funk, il soul, la disco, l’hip hop e l’elettronica hanno nell’ordine ispirato una serie di rivoluzioni che hanno disegnato i confini del clubbing. Afroamericani, latini, omosessuali trovarono in quel sound la colonna sonora perfetta per il futuro delle loro comunità che si ritrovavano a ballare la musica che preferivano, selezionata da pionieri visionari in un ambiente asettico, privo di ogni pregiudizio o preconcetto. Da creare. Rozzo, nella più bella accezione possibile del termine. Quando sfoglio le pagine di questa storia immagino che forse dev’essere stato facile fare la storia quando non sapevi che la stavi facendo. È bello per quelli che vengono dopo. La consapevolezza è una dote della quale solo che arriva dopo può godere. Queste pagine ingiallite perché consumate raccontano l’ascesa di un omino che da ultima ruota del carro, rimpiattato in un angolo, chino su una console improvvisata, si è trasformato in una superstar globale, idolatrato, osannato, venerato perché capace, attraverso la sue scelte, di manipolare sentimenti ed emozioni. Non c’è niente di più potente. Non c’è niente di più schiavizzante di chi opera in questa maniera. Di dipendente per chi subisce tale trattamento. Il dj non può essere un lavoro sopravvalutato. Perché i dj possiedono un super potere, quello di far star bene le persone. Di decidere per loro.

Le pagine intanto sono diventate sempre più bianche. Sono state scritte storie incredibili ed emozionanti. David Mancuso, Larry Levan, Frankie Knuckles, Chicago. Detroit, Londra, Ibiza, Berlino, l’italo disco, la spaghetti-house, l’italo-dance, la dance che era EDM-Avanti-Cristo ed era tutta prodotta tra Bergamo, Brescia la riviera e la Toscana (cazzo non ci posso pensare che sia tutto andato perso!). Fino al modernismo, Skrillex, Calvin Harris, David Guetta e i grandi raduni. L’inchiostro nero scorre sempre più nitido su e giù, adesso su un dominio www. I dj non sono sopravvalutati perché hanno sostituito la rockstar. E se le rockstar non erano sopravvalutate allora, per la proprietà transitiva, non possono esserlo neppure i dj. Ne incarnano lo stile di vita, addirittura lo migliora all’apparenza sostituendo le sbronze del whiskey con dello champagne a bordo di un jet privato. Non può essere sopravvalutato un mestiere sognato. I bambini vogliono essere Cristiano Ronaldo o Martin Garrix, eroi moderni, incarnazione della perfezione. Il dj non è un mestiere sopravvalutato. Lo rende tale chi si prende troppo sul serio, chi dimentica che alla fine è sempre e solo una festa dove la gente va per divertirsi, per non pensare troppo alla vita di tutti i giorni o per celebrarla. Che se alla fine della storia, se al posto del vinile gira un file digitale, benvenuti nel 2018. Lo rende tale chi si dimentica di essere pagato oro per mettere dischi di altri, chi non rischia, chi ha paura del successo e della fama perché altrimenti cosa gli racconto ai compagni di resistenza. Chi non ha paura del successo e della fama perché è consapevole che si può essere ricchi e famosi senza perdere onestà e dignità. Non sempre sono venduti, spesso sono migliori.

Il dj non è un lavoro sopravalutato. Sembra più facile di prima. È più facile di prima. La furia della tecnologia ha causato una netta democratizzazione del mestiere. Allo stesso tempo gli angoli non esistono più. Solo stage illuminati dove posare con movenze divine. Le canzoni sono diventate aghi in un pagliaio. Emergere è difficilissimo. A volte sembra impossibile. Il dj non è un lavoro sopravvalutato perché oggi deve saper fare tante cose insieme. Anche se il beatmatching fa parte di una storia che va custodita gelosamente per non dimenticare il motivo per cui possiamo affermare che siamo i più fortunati del mondo. Perché non è vero che si stava meglio quando si stava peggio. Perché per imparare a sciare con gli sci uniti devi passare da ore di spazzaneve. Ma c’è anche chi non ne ha bisogno e non è colpa sua. Ci sono materiali migliori oggi che permettono maggiore aderenza alla neve. Il dj non è un lavoro sopravvalutato. Il dj è un lavoro unico e bellissimo. Che sono cose ben diverse.

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Ale Lippi
Scrivo e parlo di musica elettronica per Dj Mag Italia e Radio m2o. Mi occupo di club culture a 360°, dal costume alla ricerca musicale.

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