Foto: Igor Grbesic
Torna Don Joe, uno dei più storici e mitici producer italiani, da sempre – ovviamente – legato al mondo hip hop e urban ma che in realtà ha sempre guardato con curiosità al pop, da una parte, e dall’altra all’elettronica. Due esempi sono i suoni di tastiera molto dance presenti in tante produzioni sue, addirittura nei tempi in cui l’EDM era ancora di là da venire, e il synth hoover (la cosiddetta “zanzara”, quella di Joey Beltram e dei Bloody Beetroots, ne ‘Il Ragazzo D’Oro’ di Gué. Il suo nuovo album ‘Don Dada’ è uscito il 13 aprile scorso per Columbia/Sony, ed è stata l’occasione giusta per una lunga e sfaccettata chiacchierata con una colonna della musica italiana, da oltre vent’anni dietro la produzione di tantissime hit, di brani e dischi entrati nel culto e nell’immaginario collettivo, e vero e proprio riferimento per generazioni di beatmaker.
Dopo anni dedicati a produzioni per tanti artisti, Luigi Florio torna con un producer album in cui la lista degli mc è infnita e dove la bilancia è decisamente pendente dal lato delle voci nuovi, di rapper giovani e in molti casi proprio ancora, davvero, underground. Non mancano i compagni di strada di sempre (Jake La Furia e Gué, e in questa intervista arriverà la solita, fatidica domanda) così come nomi affermati: Joan Thiele, Ernia, Neima Ezza… ma ‘Don Dada’ è soprattutto un disco in cui il producer milanese vuole mettere in chiaro due cose: la prima è un ruolo, e ce lo dirà in modo perentorio, di produttore inteso in senso molto ampio, di direttore artistico, che gli preme sottolineare; la seconda è il modo in cui questo ruolo ce lo vuole comunicare, e lo fa con una varietà stilistica dal bouquet molto largo se parliamo di beat, e con la voglia – il coraggio, se vogliamo – di portare a bordo parecchi nomi giovani e scoperti in un sottobosco sempre più ricco di talenti.
In sostanza, ‘Don Dada’ è un album speculare e opposto rispetto al precedente ‘Milano Soprano’ che voleva al contrario mostrare i muscoli portando al microfono una sorta di all-star team del rap e della musica italiana. Con queste premesse, l’intervista che state per leggere è il ritratto di un personaggio ormai consolidato ma che non ha di certo esaurito la sua carica creativa.

La copertina di Don Dada, opera dell’artista Gianpiero D’Alessandro
Cosa ti spinge, nel 2023, a fare un disco da “frontman”, un producer album dove tu sei comunque il titolare?
La spinta è unicamente la passione per la musica, la voglia di continuare a creare delle cose che lascino un’eredità del mio gusto personale, più che altro incentrato sul contemporaneo. Perché molti dischi usciti ultimamente possono sembrare un filo lontani da ciò che c’è nel mio album, ma io rifletto la mia sensibilità e la rifletto rispetto a quelli che sono i miei ascolti recenti. È un quadro generale di ciò che faccio e ascolto continuamente, dal reggaeton alla trap a tante altre cose che stanno uscendo ora. E non mi spaventa nemmeno più pensare che in un mio album ci siano elementi distanti tra loro, anzi mi piace spaziare perchè non mi ritengo più un beatmaker ma proprio un produttore, uno che ha una visione generale sul progetto.
Un regista.
Sì, esatto, un regista. Un produttore nel vero senso della parola, uno che mette insieme le cose e ne fa una ricetta sua.
Rispetto a dieci anni fa, al tuo primo album post-Dogo, come sono cambiati i tempi e che posizione trova sulla mappa della scena un disco come questo, ma anche un artista come te?
Finalmente anche l'”urban”, inteso come tutti questi generi messi insieme, oggi è qualcosa di radicato, ci sono delle scene, città dove i club sono frequentati solo da chi ascolta questa musica, e la mia voglia di fare ancora è spinta anche da questa stabilità, se pensi agli anni che furono era un continuo saliscendi, il rap e l’hip hop erano in hype e poi sparivano, moda e subito dopo dimenticatoio. Ad esempio il mio primo disco dopo i Dogo, ‘Ora O Mai Più’, fatto con i grandi del pop di allora – conta che avevo nell’album Giuliano Sangiorgi, Emma, Francesca Michielin, Giuliano Palma, Emis Killa, J-Ax… – non era stato recepito più di tanto, nonostante i nomi coinvolti fossero di primissimo piano. Oggi sarebbe molto più accettato, pensa a Mace e al successo – meritatissimo, peraltro – che avuto. Anche perché oggi la classifica parla chiaro… non mi metterei a fare un album jazz, se vogliamo parlare schiettamente di mercato.
Si sono anche molto mescolate le carte: penso a Lazza, a un autore come Davide Petrella, a come il rap sia diventato anche melodico e cantato e a come questo non sia più un problema, grazie al cielo: uno street come Lazza è andato a Sanremo, senza hating; ha portato un pezzo super pop come ‘Cenere’ arrivando secondo e ha stravinto con il pubblico e con tutto il sistema, senza menate…
Assolutamente. Beh, ‘Cenere’ è una bomba ma in generale quello che è successo era impensabile anche solo pochi anni fa. Il rapper a Sanremo era visto male di suo, ma più dal nostro mondo che da quello pop, paradossalmente il modno rap è sempre stato meno aperto ad accettare le cose non conformi che non l’establishment pop. Se poi il rapper si presentava con un pezzo d’amore, cantato, con il piano e la cassa in quattro, ciao… sarebbe stato massacrato. Oggi invece sono applausi. È significativo, no? Molto è cambiato. In meglio. Anche perché i rapper hanno imaprato ada vere atteggiamenti, immagine, strategie da mondo discografico, non per forza da quelli furoi dal sistema.
In ‘Don dada’ ci sono una marea di collaborazioni, ma il baricentro mi pare molto spostato verso nomi nuovi. Come mai?
Ma è qualcosa che faccio proprio perché mi piace seguire gli artisti nuovi, sentire cosa fanno, capire chi e cosa sarà il futuro. Ad esempio 18K è uno che mi ascolto da quando è uscito il suo disco, sconosciuto per la massa, ma mi piace la sua voce, il suo flow, la sostanza delle cose che dice, è giovane ma è uno che mi dà già sicurezza e solidità. Lo stesso vale per Kid Yugi, ad esmepio. Ecco, loro vanno seguiti a livello underground, prima che esplodano.
Credo sia anche il compito del produttore inteso ne modo “ampio” di cui parlavamo prima, no?
Certo. Fin dall’inizio infatti l’idea non era di fare un all-star album, l’ho fatto con ‘Milano Soprano’ ed è un momento che ormai è storia, è stato fotografato, è andato. Se vuoi proprio ‘Milano Soprano’ insieme a ‘Mattoni’ di Night Skinny sono stati il ritratto di quel momento incredibile del rap italiano. Però era appunto la fine, il “riassunto” di un’epoca i cui tanto era successo e tanti artisti erano diventati grandi e di peso. Adesso è un altro momento. Io ho la fortuna di essere nella posizione di poter rishciare, perché se andiamo giù in studio e facciamo un beat, lo spingo un po’ e lo piazzo, al big come al newcomer. Ma in un mio album fare sempre la collezione dei grandi nomi è facile, anzi diventa quasi ripetitivo; al contrario credo sia proprio il compito del produttore, inteso come ti dicevo prima come “regista”, quello di andare a pescare i nuovi talenti, monitorarli, farli sbocciare. È una bella sfida.
Una sfida che credi di vincere con ‘Don Dada’?
Ma io credo di sì, onestamente. Ad esempio con 18K ho trovato uno che dici “questo ha un futuro, è un talento vero”, ma non solo lui; questi sono nomi che già possiamo dire che usciranno prima o poi. E la bravura sta nel beccare il cavallo giusto quando ha 1000 follower su Instagram, perché ormai i giovanissimi vanno a ballare questa musica e gente come gli Slings sono già famosi in un sottobosco giovanile. Bisogna intercettare quei fenomeni come Less Torrance & RollzRois, ad esempio, che sono bravi, hanno cose da dire, e hanno cultura, ma ancora non sono entrati nei radar giusti. Poi ci sono pure gli one hit wonder, per carità, quelli che fanno il pezzo della vita e poi non ne azzeccano più una. Oggi succede spesso, sempre più spesso, perché il mercato è una corsa dove partono in mille e ne arrivano dieci, forse cinque.

Foto: Igor Grbesic
Oggi il mercato è cambiato molto, va velocissimo, a me ha fatto sorridere vedere un documentario sulla scena urban italiana del 2016 raccontato come fosse qualcosa di storicizzato, quando invece è successo l’altro ieri. Però è un segnale interessante, no?
Non so, a me è sembrato un film fuori di testa per alcune scelte, perché l’ho vissuto in pieno quel periodo, c’ero, e tante cose non sono esattamente come vengono raccontate lì. Detto questo, il problema vero è che non capisco a quale generazione si rivolga quel film. Non alla nostra, non ai giovanissimi, e non credo nemmeno a chi era fan allora e oggi magari è un pochino cresciuto e non sente la nostalgia perché è presto per sentirla. Ma immagino non volessi parlare di questo, scusami, ti ho interrotto.
No, mi interessa il tuo punto di vista… però sì, era un pretesto per chiederti, visto che c’eri allora e ci sei oggi e sempre da protagonista, com’è cambiato il mercato rispetto a quel periodo lì, che era solo sette anni fa. Secondo te è molto diverso?
Sì, assolutamente. Oggi i one hit wonder sono sempre di più. Vedi spuntare ogni settimana nomi che nel giro di pochissimo sembrano lanciati verso un successo totale, con follower, pezzi da milioni di stream, e poi boh, dopo sei mesi ti chiedi che fine abbiano fatto. Un tempo questa cosa del rap, urban, trap… non so nemmeno come chiamarlo ormai. I padri di questa cosa la chiamavano hip hop. Quindi chiamiamola hip hop, ok? Ecco, secondo me l’hip hop oggi è esattamente come la dance negli anni ’90. Tu ti ricordi com’era il mercato dance negli anni ’90?
Sì, abbastanza, ero ragazzo e mi sembrava un treno in corsa, con hit per ogni stagione, follow up, remix, e così via a ciclo continuo…
Esatto. Negli anni ’90 le produzioni dance erano come le catene di montaggio. Producer che lavoravano a cottimo copiando il pezzo del momento o cercando di beccare la formula giusta. E quando la trovavano, sotto per ripeterla finché si poteva. Oggi vedo la stessa cosa nell’hip hop. E ti posso dire che non avendo la frustrazione di cercare la classifica – perché te lo dico subito, non me ne frega un cazzo, non ho voglia di mettermi in quel campionato – è un bel cinema vedere tutti questi che lavorano alacremente nella speranza di pescare il jolly, a ciclo continuo. Nella speranza di fare cosa? Il nuovo Sfera? Ma Sfera c’è già, non ne beccherai un altro. Non beccherai un altro Lazza. Perché ci sono già. Mi spiace per questi poverini che si sbattono 24 ore al giorno per tentare la fortuna. Non è così che funziona la musica, per me.
Come ti seni oggi a poter dire “sono Don Joe e non ho lo stress di cercare la classifica”?
Bene, come uno che non ha quello stress… mi sento libero di fare le mie cose, di farle suonare come voglio io e senza andare ad ascoltare quelle degli altri che funzionano, perché tanto non le farei in quel modo. Non è una competizione che mi appartiene, sono sereno nella mia musica. Ho anche un’età che mi fa pensare in questo modo, perché anagraficamente potrei essere il padre di questi ragazzi, quindi è anche giusto che loro provino a entrare da quelle porte e io no.
Senti, ascoltando ‘Don Dada’ ho notato che è un album estremamente vario, con parecchi stili diversi. E pensavo che la stessa cosa l’ho osservata ascoltando l’ultimo disco di Gué, ‘Madreperla’, che come il tuo è un disco di forte amore per l’hip hop in tante sue sfaccettature, con beat classici ’90, club 2000, influenze latine e tanta contemporaneità.
Ma perché anche Gué è un grande onnivoro, il suo amore per i suoni caraibici non è un mistero: reggae e dintorni sono il suo pane, ad esempio. Poi ha lavorato con Bassi che ha cultura e skill per fare un album come quello. So già che vuoi chiedermi perché i nostri album si assomigliano, se è una scelta di mercato o cosa… ma non è per niente così.
No, in realtà non era ciò che volevo chiederti. Anzi, non credo che i vostri album si somiglino particolarmente, se non in questa volontà di essere molto “ampi” a livello di sound. Era una domanda più banale, forse l’ho presa dal lato più contorto…
Dai, vai con la domanda fatidica.
La leggendaria reunion dei Club Dogo è più vicina?
Eccola… mi tocca spiegarla per la milionesima volta: in questo momento il gruppo non c’è. Non c’è una progettualità intorno al gruppo. Quindi non c’è nemmeno la volontà di fare un album insieme. Perché o lo facciamo bene, ma davvero bene, oppure non ha senso. Perché buttare fuori un disco del cazzo, che non sia all’altezza di quanto abbiamo costruito, è svilente per tutti noi. Un autogol.
Te lo chiedevo un po’ per fan service, perché da fan mi pare giusto tormentarvi sperando possa servire ahah. E poi, battute a parte, perché negli ultimi tempi ci sono state più interazioni: featuring, convergenze, album come i vostri che in qualche modo partono da una prospettiva vicina, il momento bellissimo in cui comparite insieme nel video di Marra e Gué… e allora cambio domanda: a voi piacerebbe?
Ma ci vediamo, ci sentiamo, figurati… per rispondere alla tua domanda, posso parlare per me, ovviamente: a me piacerebbe, sono sempre pronto per una cosa del genere. Io nella mia testa ho un’idea di come potrebbe essere un disco dei Dogo. E te la potrei raccontare ma resta l’idea che ho io nella mia testa, non so se Jake e Gué potrebbe essere l’idea giusta, capisci?
Chiaro.
Non possiamo fare un album drill o trap. Dobbiamo tornare con un classico, un album senza tempo. Poi siamo tutti molto attivi, vedo Jake che spazia molto nelle sue cose, fa anche tanta radio, televisione… io faccio il produttore e mi piace. Cosimo è sempre ai vertici… Insomma abbiamo delle carriere, fortunatamente, e questo non ci fa vivere con la premura di dover rimettere insieme un progetto come i Club Dogo per dover grattare due soldi. È una buona cosa. Perché significa che torneremo quando avremo voglia davvero.
Quando hai capito che quello che avete costruito insieme era diventato importante anche per il proseguimento della vostre carriere? Quando hai pensato che i Club Dogo hanno lasciato un’eredità forte nelle vostre carriere e vite?
Diciamo che nel costruire la storia dei Dogo ci siamo resi conto di aver segnato delle pietre miliari nella storia del rap italiano.
Ma secondo me non solo del rap, sai? Dopo di voi e grazie a voi è cambiato proprio il modo in cui il pop in Italia viene prodotto, percepito e lavorato a livello discografico. È un fatto.
Sì, è vero, ed è un bel tassello nella storia della musica italiana. È qualcosa che poi si è stratificato, non è qualcosa che è successo e poi è stato superato. Il fatto stesso che ognuno di noi sta ancora facendo musica con un buon seguito, un buon successo, e tanto affetto da parte di tantissime persone, sia significativo di quanto quella avventura non sia stata solo un botto estemporaneo ma la radice di un albero robusto. Facciamo musica da più di vent’anni, a conti fatti, e non stiamo pensando di mollare per fare altro o perché non siamo più rilevanti. Qualcosa vorrà pure dire, no?
In questo momento come ti vedi come produttore, proprio nel mercato?
Io faccio tante cose, alcune più di fronte, altre più in modalità stealth. Ad esempio ho curato il disco di Paky ma nessuno lo sa. Sto lavorando con Speranza che è un talento vero, forse poco riconosciuto per quanto è forte. Insomma ci sono lavori di direzione artistica, di consulenza progettuale, creativa.
Domanda da un milione di dollari: il sogno nel cassetto di Don Joe nel 2023, dopo che non devi dimostrare nulla a nessuno?
Mi piacerebbe che questo mio status che dici fosse riconosciuto ancora di più. Voglio dire, proprio l’idea di seguire progetti a livello di direzione artistica. Dalle nuove generazioni e perché no, anche all’estero. Senza paragonarmi a giganti come Rick Rubin, per citare il primo nome che viene in mente a tutti, immagino, ma ecco, quel tipo di lavoro di “deus ex-machina” mi stimola molto.
28.04.2023