Qualche giorno fa, abbiamo tutti appreso con rammarico il secondo grande lutto del 2018 nel mondo della musica: l’assassinio di XXX Tentacion. Recentemente vi abbiamo parlato dello spessore del talento di questo giovanissimo artista – solo vent’anni – che ha sconvolto la scena hip hop da vero trend setter, introducendo quello che negli ultimi due anni è stato definito SoundCloud rap, dominando le chart, facendo parlare di sè per mille ragioni (tra cui i turbolenti trascorsi personali) e pubblicando un album, ’17’, che a detta di molti è una delle migliori cose accadute all’industria musicale degli ultimi anni, come anche il degno seguito di ‘?’. Mi posso limitare a sottolineare l’enorme merito di aver regalato al grande pubblico il canto dell’emisfero nascosto e brutale che è quello della tristezza e della depressione. Descritto così per com’è, per come nessuno lo spiega davvero. Dagli occhi di chi ha vissuto addosso il male di tutto il mondo e brucia per sputarlo fuori e iniziare a respirare.
Aldilà di tutto questo, fuori da qualsiasi discorso musicale o etico, due giorni fa un ragazzo che faceva musica è stato assassinato per – a quanto risulta al momento – un borsone di Louis Vuitton. La notizia viene data al globo, e la profonda malinconia del momento viene screziata dal caro e vecchio popolo del web. Chi conosceva l’artista e i suoi brani si unisce al cordoglio, i migliori dj del mondo e non solo si esprimono con riflessioni personali; chi invece non lo conosceva, ha scelto un duplice approccio. Qualcuno ha pensato di informarsi, o magari se ne è fregato e, come è anche giusto che sia, non si è espresso; qualcun altro non ha perso occasione per ricordarci quanto atroce possa essere il cinismo e la strafottenza di certe fasce di pubblico, che in alcune occasioni danno un chiaro esempio di quanto lavoro ci sia ancora da fare sulla mentalità di chi è “dall’altra parte dello schermo” per poter, magari un giorno in futuro, davvero paragonare il nostro Paese al resto del globo. Gli haters, gli invidiosi e i frustrati ci sono sempre stati e sempre ci saranno, in Italia quanto negli USA e altrove. Ma è davvero triste leggere quel che ho letto in questi giorni, tra commenti a pagine musicali e a quotidiani italiani, soprattutto se ci si rende conto che parliamo di una gigantesca fetta di chi recepisce la notizia.
“E questo chi cazzo è?” scrive Massimo, riscuotendo il consenso di centinaia di persone; “il rap è violenza, poteva aspettarselo” scrive Beatrice; “era solo lo Young Signorino americano”, commenta invece Fabio, suscitando ilarità e supporto. Se c’è una cosa per la quale da sempre sono nemico dichiarato, questa è l’ostentazione dell’ignoranza. Di cui noi italiani siamo validi rappresentanti nel mondo. Se non conosco qualcosa – o qualcuno – di cui si parla ultimamente nei media, non importa quale sia il valore della persona in questione e ancora meno importa che io abbia a disposizione Wikipedia, Google, Spotify e simili per scoprire tutto nel giro di pochi secondi: l’importante è far sentire scemo chi sa ciò che io non so, perchè se non lo so significa che non mi devo prendere la briga di conoscerlo. E quindi insulto, prendo per il culo, sparo commenti senza basi, tanto per spostare l’attenzione sulla mia frustrazione del non conoscere l’ennesimo soggetto musicale in questione. Mi ricorda anche un paio di pensieri letti a riguardo della scomparsa di Avicii: “fuori un altro alcolizzato che faceva musica di merda”.
La vita ci insegna che chi vive di curiosità, passione e voglia di sapere, anzichè sviluppare sentimenti altezzosi nei confronti di ciò che non si conosce, tende a dimostrare un’apertura mentale e un’umiltà che allo stesso tempo costituiscono la forma più pura di spessore intellettuale. Nessuno è più arrogante dell’ignorante, nessuno è più piccolo di chi non vuol crescere. Il problema dei social media, tra i tanti aspetti positivi che hanno portato alla comunità globale, è che per certe forme di ignoranza espressa adesso sono a disposizione una grossa quantità di megafoni. Occasioni perse per fare silenzio, e prima dell’epoca di Facebook mai concesse se non a chi avesse le competenze per scegliere le proprie parole o anche sapere di ciò di cui si stesse parlando. La democrazia (o anarchia?) dei nuovi mezzi di comunicazione, in questi momenti, si esprime perfettamente nella sua non necessità. Di Fabio, Massimo e Beatrice non ne avevamo proprio bisogno. Nullità che si esprime con mediocrità sulla pura sostanza. Il paradosso del nostro tempo.
21.06.2018