Spesso si dibatte sull’effettivo significato della parola “live” in un momento storico in cui tutti abusano del termine, dal semplice “schiacciatore di tasto play” (vedi i famosi flame di Deadmau5) a chi invece allestisce il più complesso dei set up. In questo marasma di interpretazioni, ieri sono andati in scena i Fat Freddy’s Drop all’Alcatraz di Milano. Non esattamente una band elettronica, o meglio, non strettamente tale. I FFD arrivano dalla Nuova Zelanda, e se ne parlo in questa sede è perchè il loro sound è un curioso e riuscitissimo clash di reggae, dub, elettronica di vario tipo (che flirta spesso e felicemente con la house), jazz; il tutto portato in giro da una big band di sette elementi: tre fiati, voce, chitarra, tastiere/synth, dj. Badate bene, niente basso e batteria. La sezione ritmica è tutta affidata ai beat di Dj Fitchie. Più i campionatori, le drum machine e le varie macchinette pazze che si intersecano in modo assolutamente perfetto con il suono caldo dei fiati live e degli altri strumenti. Il tutto amalgamato dalla voce spettacolare, unica, di Joe Dukie.

Partiti nei primi anni 2000 dalla Nuova Zelanda, i ragazzi sono diventati un fenomeno globale, pur non avendo hit radiofoniche mondiali (i loro pezzi hanno in genere durate “importanti”, si arriva allegramente ai sette/otto minuti, delle piccole suite). Perchè? Sicuramente il web accorcia le distanze, altrettanto certamente i Fat Freddy’s Drop sono un esempio bellissimo della parola globalizzazione nella sua accezione più positiva. Una somma di elementi che dà origine a qualcosa di inedito, a un tempo famigliare (la radice jamaicana in levare fa sempre colpo, lo stesso il beat in quattro della house) e innovativo, avanguardista e pop, tradizionale e outsider, in ogni caso accattivante.
Non era la prima volta che i FFD passavano dalle nostre parti, e ogni concerto è un evento sorprendente per quantità e varietà del pubblico (un locale come l’Alcatraz non lo riempiono tutti). Puntualissimi sul palco alle 21, i magnifici sette spingono sound per oltre due ore senza tregua, snocciolando classici del loro repertorio (“Roady” fa esplodere la sala) e i pezzi del nuovo album “Bays” (il singolo “Razor” si muove in un territorio di confine tra house e techno detroitiana della prima ora, solo con una bella canzone sopra). Degno di nota il bis: i Freddy’s tornano sul palco costruendo un beat con le macchine, su cui si apre un lungo assolo di armonica, e poi via via entrano in scena gli altri strumenti a stratificare l’arrangiamento. Tutto bellissimo, tutti contenti.
Ecco, a me piace quando il mondo del club collide in questo modo con altri generi, abbattendo barriere nel migliore dei modi possibili: senza troppe speculazioni di sorta ma con tanto sano divertimento per chi viene a ballare e divertirsi. E mi piace avere la possibilità di parlare di realtà così borderline per la nostra rivista – che si occupa principalmente di dancefloor – ma enormemente interessanti e importanti per la musica, per la sua bellezza e per le emozioni che sa dare.
13.11.2015