Il mestiere del dj, la party vibe, i muri da abbattere, le immancabili camicie hawaiiane. Fatboy Slim è uno degli artisti più interessanti che si possano incontrare: con Norman Cook si ha la sensazione di stare accanto a un uomo ancora curioso, frizzante, vulcanico. Lo capisco dai modi spicci, dalla parlata veloce, dal tono della conversazione. Consapevole ma non supponente, avvezzo al dialogo e non intento a farsi venerare su un piedistallo. Circondati dal suo management, una ciurma dove spicca un inglese dall’accento fortissimo e un cappello da cowboy da far invidia a Tex Willer, ci ha concesso una lunga e bella intervista che potrete leggere in versione integrale su DJ Mag in edicola a febbraio. Intanto ve ne regaliamo una parte in anteprima.
Stiamo per festeggiare l’arrivo dell’anno nuovo a Parma, e non è la tua unica data in Italia in tempi recenti. C’è stato il laser show a Milano la scorsa primavera e ti abbiamo visto spesso nella nostra bella Penisola negli ultimi anni. Che rapporto hai e hai avuto durante la tua carriera con il nostro Paese?
Mmm… durante gli anni è stato un rapporto tutto sommato sempre buono. Con periodi migliori e altri meno, ma ho sempre percepito amore e affetto dal pubblico italiano. Negli ultimi due, tre anni sono venuto spesso a suonare qui perché ho un team che si occupa di me, mi supporta e promuove ed è attento alle situazioni interessanti in cui portarmi. Devo anche dire che ho notato una maggiore competenza e cultura nel modo di lavorare in Italia negli ultimi anni, i club e i promoter sono attenti, conoscono le dinamiche e la musica, e anche il pubblico. C’è maggiore cultura e una giusta voglia di fare party, ecco.
Hai anche prodotto ‘Eat, Sleep, Rave, Repeat’, una grossa hit insieme a un produttore italiano, Riva Starr.
Un italiano che vive a Londra! Grande.
Una caratteristica che mi ha sempre affascinato molto nel tuo stile è quella “party vibe” che ti contraddistingue, dai tempi di The Mighty Dub Katz e Pizzaman fino all’esplosione del big beat e poi ancora oggi. Un mood davvero festaiolo e preso bene con cui hai attraversato parecchie trasformazioni stilistiche della musica da ballare. E non è scontato, perché molti dj sono invece scuri, umbratili, quasi che il dancefloor sia il luogo dove fare un viaggio interiore.
Guarda, è una cosa che proprio non capisco. A volte mi viene detta questa cosa della “musica da party” come se fosse strano… mentre il nostro lavoro, quello del dj, è di provvedere alla colonna sonora di una festa. Siamo qui per far ballare le persone, farle divertire. Non capisco il senso di un dj che sia così umorale, lunatico nel sound. Ma perché? Suoniamo a una festa, la gente viene per divertirsi, sorrisi, cose del genere. Certo che ho un party vibe! Essere un dj non ha a che fare con quanto sei cool o quanto è ricercata la tua musica. L’obiettivo è far ballare tutti! Perciò che sia big beat, house, acid, o quello che vuoi suonare, non importa, ciò che conta è il gusto che dai alla musica. Per me la cosa più importante è vedere le persone ballare, essere in sintonia con il loro entusiasmo e trascinare loro nel mio.
Quanto è cambiato il tuo rapporto con le persone, con il pubblico? Tu eri un dj superstar prima che esistesse questo termine, lo sei rimasto nel tempo e contemporaneamente diversi tuoi colleghi sono arrivati a questo livello di popolarità: ormai i dj sono a tutti gli effetti popstar e rockstar, come hai vissuto questa trasformazione?
Beh, è stato interessante osservare tutto questo. Un tempo i dj non erano considerati persone importanti, il dj era quel tizio in un angolo che trafficava con i dischi. È magnifico invece notare come oggi siamo una categoria celebrata e ammirata. Questa evoluzione chiaramente mi fa piacere perché significa cha abbiamo un ruolo in questa società, e non parlo soltanto di collocamento nel mondo del lavoro. Abbiamo un ruolo sociale perché come stavamo dicendo prima, siamo quelli che fanno ballare le persone, le fanno divertire, e oggi è necessario, a quanto pare, liberarsi dallo stress e celebrare la vita, più che mai. Per questo anche i dj sono necessari. O perlomeno, non sono superflui, no?
Certo. Anzi, i dj oggi hanno un ruolo chiave sia nell’industria discografica, come tastemaker, produttori, personaggi di tendenza, sia tra il pubblico proprio per la funzione che svolgono.
Sì, tutte queste cose. A volte ho l’impressione che siamo come delle prostitute, ma in definitiva il nostro è anche un lavoro “funzionale”, nel senso che dobbiamo suonare musica che faccia ballare e questo ci dà ampia libertà da un lato ma chiaramente implica uno scopo ben preciso e quindi un servizio, qualcosa del genere. È il motivo per cui i musicisti hanno sempre considerato male i dj: dei nerd senza un vero talento nel suonare uno strumento, preparati come dei maniaci sui dischi, e che all’improvviso sono diventati più celebri e celebrati di chi i dischi li fa. Strano, no? Eppure ormai anche questo luogo comune è venuto meno, il dj ha conosciuto una trasformazione fino al ruolo di superstar, appunto, la tua domanda contiene una riflessione molto sagace.
16.01.2017