Sconvolgente, estremo, ultraviolento. Vent’anni fa, in questi giorni usciva “Firestarter” dei Prodigy. Era il 18 marzo 1996. Qualcosa che non si era mai sentito e mai visto nell’immaginario dance. “I’m the firestarter, twisted firestarter” cantava Keith Flint in un video girato nei tunnel della metropolitana, con un bianco e nero livido e pauroso.
I Prodigy erano già protagonisti della scena, paladini dell’epoca rave UK, i primi a portare quei suoni e quel mondo nelle radio e nelle classifiche di tutta Europa, a partire dall’esordio di “Charly” nel 1991, e poi con il successo di “Music for the jilted generation”, album mitologico uscito nel 1994. “No good (start the dance)”, “Voodoo people”, “Poison” avevano scosso la musica degli anni ’90 nelle fondamenta. A quel punto serviva un salto quantico. Con Liam Howlett saldamente ai controlli del gruppo (è lui l’anima, il produttore e il gran burattinaio di tutta la faccenda), la rivoluzione passa da Keith Flint e Maxim Reality, promossi da comprimari a frontman.
In particolare, il look di Flint, qualcosa a metà tra Mad Max e i cattivi di Ken il guerriero, diventa istantaneamente iconico. Musicalmente, la scelta di spostare i suoni verso il rock e la canzone, pur mantenendo il mood rave, è vincente. I Prodigy diventano idoli generazionali trasversali, e le successive hit “Breathe” e “Smack my bitch up” saranno la consacrazione definitiva, tanto che saranno tra i primi provenienti dal mondo di dj e affini a suonare su palchi tradizionalmente rock. Non riuscirannno più a replicare la forza dei primi tre album (“Experience”, “Music for the jilted generation”, “The fat of the land”), punti altissimi della musica elettronica di sempre, ma il loro status di travolgente macchina da live resta intoccabile tutt’oggi. Vent’anni dopo, musica che suona ancora fresca e credibile. E non è poco.
21.03.2016