È stato il più grande flop dell’era digitale. Il più grande schianto dello show business. Fyre Festival è un caso esemplare di fallimento. Breve recap: all’inizio del 2017 si alza rapidissimo ed enorme l’hype su un nuovo festival di produzione americana, i soci dell’impresa sono Billy McFarland, giovane ambizioso imprenditore, e il rapper Ja Rule, a sua volta protagonista di alti e bassi nella sua carriera musicale e imprenditoriale. I due organizzano un festival da sogno su Great Exuma, nelle Bahamas, con line up di alto livello e sistemazioni degne della incantevole location: ville, cottage, camping di lusso. Il festival va praticamente sold out nel giro di 48 ore, anche perché la campagna social è devastante, promossa da personalità come Emily Ratajkowski, Bella Hadid e Kendall Jenner. Ma le cose vanno tutte per il verso sbagliato, e il festival diventa un incubo: gli artisti non si esibiscono, le sistemazioni non sono pronte e tutto è gestito in modo a dir poco amatoriale. Il caso fa il giro del mondo, i numerosi e strapagati influencer invitati ci mettono poco a diffondere immagini e descrizioni del disastro che si rivela Fyre. A loro volta, i partecipanti mostrano video sconcertanti e tutto diventa virale nel giro di pochi giorni, portando Fyre sulla bocca del mondo. Epic fail. Ma davvero epic. Le cose si mettono malissimo soprattutto per McFarland e la sua società. Sarà condannato a diversi anni di prigione e al bando da ogni carica dirigenziale a vita.
Tutto quello che avreste voluto sapere è raccontato in modo molto più approfondito del riassunto che avete appena letto in due documentari ‘Fyre: The greatest party that never happened’, disponibile su Netflix e prodotto tra gli altri dalla società che aveva gestito la campagna media di Fyre; e ‘Fyre Fraud’, sulla piattaforma Hulu, che mette in primo piano la figura di Billy McFarland, intervistato e coinvolto direttamente nel documentario (non è presente invece in quello di Netflix). Due prospettive differenti di raccontare un caso che è già da manuale di marketing aziendale, purtroppo non come success story.
Ciò che non cambia tra le due versioni è la morale che possiamo trarre dal caso Fyre: viviamo in un’epoa dove l’effimero sembra diventare reale, ci facciamo influenzare dalla vita filtrata dalla lente dei social e ci sono imprenditori squali che non vedono l’ora di speculare su questa mentalità imperante. Ma la vita vera ci fa sbattere sempre la faccia contro il muro: un festival non si organizza in pochi mesi, nemmeno con budget milionari. E soprattutto, oggi più che mai: don’t believe the hype. Non credete alle montature. Due documentari da vedere, per capire come dovrebbe funzionare un mondo che da fuori appare sempre e soltanto come un grande party ma che è fatto, in realtà, di duro lavoro, sacrifici e strategie finanziarie che portano a rischi d’impresa notevoli. E da vedere anche per studiare un po’ di sociologia spicciola. Viviamo in un momento storico anomalo e delicato; a tratti questi film sono una vera doccia fredda, se ci soffermiamo a riflettere su quanto ci facciamo pilotare da un pensiero unico fatto di selfie, successo facile, bella vita. E che spesso è finto, millantato, come gli alloggi pagati come cottage di lusso che sono, nella realtà, le tende dei terremotati con dei materassi a buon mercato.
24.01.2019