Nazionale, popolare. Nazional-popolare. Anche senza trattino, nazionalpopolare. Ma senza cercare il consenso a tutti i costi. Per diventare leggende bisogna essere granitici, diventare popolari fino a essere eroi nazionali. Un eroe non si piega. Vasco Rossi è diventato Vasco cantando di vite spericolate e generazioni di sconvolti, non di cavalieri e principesse. Gigi D’Agostino con ‘L’Amour Toujours’ ma anche con ‘Bla Bla Bla’ e il Lento Violento. Ovvio, non sto paragonando due storie che non possono essere paragonate, ma il denominatore comune è: faccio quello che voglio. Che Gigi D’Agostino sia una leggenda non lo scopriamo certo oggi. Mi ha però ispirato questa riflessione tutta una serie di articoli usciti all’inizio di questa settimana. In realtà il primo che cito risale a quasi un anno fa, lo scrissi io proprio per il nostro sito: “Perché Gigi D’Agostino è tornato di moda?”. Mi colpì molto il fatto che questo sia diventato in breve l’articolo più letto di sempre sul sito di DJ Mag, alla faccia delle tendenze internazionali che si sforziamo di raccontare e dei duri e puri che ci criticano perché non siamo abbastanza alternativi. Mi colpirono soprattutto i numerosi commenti, perlopiù positivi, ma dal tenore “guardate che Gigi non è mai passato di moda, Gigi è una fede, Gigi è il più grande”. Ok. Incasso e prendo appunti: Gigi D’Agostino è ancora una superstar, nulla ne scalfisce la fede e la fedeltà dei fan.
Sabato scorso si è esibito al Fabrique di Milano. Molte testate musicali se ne sono occupate, con piglio diverso. L’articolo migliore l’ha scritto il nostro Ale Lippi, non lo dico per partigianeria me perché credo abbia intercettato lo spirito della serata raccontandolo nel modo più onesto per un trentacinquenne: “Si stava meglio quando si stava peggio”. Ovviamente un successone di click, views, condivisioni, commenti social. Altri due pezzi interessanti sono quello di Chiara Galeazzi su Noisey, nello stile da inchiesta della rivista, in cui il racconto passa dalle interviste agli spettatori al punto di vista dell’autrice, per tratteggiare un ritratto del pubblico e del tipo di serata, e quello di Federico Sardo su Rockit. Chiara su questo tipo di analisi è forte, sa fotografare bene ciò che ha intorno. Non credo che Gigi sia esattamente “il suo brodo” musicalmente parlando (per quanto la conosco), ma dà una lettura diversa, diciamo sociologica, e va bene. Federico la butta invece sull’effetto nostalgia, con una premessa del tipo “potevo andare a vedere altro ma sono curioso”. Lungi da me giudicare la qualità del lavoro altrui, ci mancherebbe, si tratta in ogni caso di articoli scritti bene da persone di cui ho stima. Ma ecco il fil rouge che unisce la considerazione del mio titolo e i tre articoli. Da qualsiasi parte lo si voglia prendere, il racconto di Gigi al Fabrique è letto come un evento irrinunciabile, una serata a cui una volta nella vita bosogna andare. Ed è esattamente la frase che da metà anni ’90 in poi si sente dire di un concerto di Vasco. “Io non sono un fan, eh, però una volta nella vita Vasco va visto”.
“Il problema non è Vasco, è il vaschismo”, dice un mio amico quando si parla del fenomeno quasi religioso intorno al Rossi più famoso d’Italia. Il pubblico è un parallelo straordinario. Fedeltà cieca per Vasco così come per Gigi. Avevo già in mente da un po’ questo titolo, prima ancora di mettere a fuoco l’articolo. Chiara Galeazzi butta lì un termine di paragone con Campovolo (storico presidio di Ligabue, superstar agli antipodi del Balsco, notoriamente). Io, più che Ligabue, credo proprio che Gigi D’Agostino sia Vasco Rossi. Liga è comunque pop, nel suo essere rock; Vasco è Vasco. Non ha nemmeno bisogno di un genere o di un aggettivo da appicciargli addosso. Non più. Lo stesso per Gigi d’Agostino. Che poi, nella nostra mentalità da Cerchia dei Navigli State of mind, dove sbrocchiamo per qualsiasi stronzata minimamente cool che sia nuova e mai vista (anche se nove volte su dieci sono fuochi di paglia più fuffa di Talia Concept nella Grande Bellezza) e pensiamo che il mondo finisca oltre l’orizzonte degli eventi da 300 persone in location finto-riqualificate negli avventurosi territori oltre piazzale Loreto, spesso non ci rendiamo conto che il Paese reale è questo qui, o meglio anche questo qui. Quello che riempie il Forum con The xx e il Fabrique (e ogni discoteca in giro per l’Italia, città o provincia) con Gigi D’Ag.
Vivendo fuori Milano, non mi sono mai stupito troppo di come il fenomeno Gigi sia ancora oggi così potente. Ho una discoteca molto grande, di quelle che hanno fatto la storia del clubbing negli anni ’90, a due passi da casa, e spesso i manifesti annunciano clamorosi sold out del Gigi nazionale. Vivo a Milano buona prte del mio tempo ma abito in provincia, so di che si tratta. Gigi D’Agostino è il primo, vero grande super dj. E non ha mai avuto nemmeno bisogno di re-inventarsi come Tiesto o altri camaleonti. È forte perché è lui. Con il cappello da capitano, gli occhiali gialli, il Lento Violento, le super hit. Che poi fatele voi, le super hit. Sabato sera chattavo con il resto della redazione sulla serata del Fabrique, e nel giro di mezz’ora mi sono ricomprato in digitale 40 euro di musica di Gigi. Dai successoni ai pezzi che amavo nel periodo progressive: ‘Elektro Message’, ‘Fly’, ‘Coca & Avana’, la leggendaria ‘Giallone Remix’, tre versioni de ‘L’Amour Toujours’. Ora ditemi che non avete mai comprato un CD di Vasco all’autogrill. Anche un greatest hits in offerta. Non ci credo. Tutti l’abbiamo fatto, anche se non siamo fan. Perché fa parte del nostro background, è in qualche modo rassicurante. Non c’è molto da analizzare in questo, o meglio possiamo scriverci milioni di libri, utilizzare il punto di vista sociologico, nostalgico, analitico-critico, musicologico, ma nessuno spiegherà mai il fattore emotivo che spinge anche il più integralista purista della transavanguardia musicale a indulgere sul ritornello da inno una volta nella vita. Che sia ‘Albachiara’ o ‘L’Amour Toujours’. È pura emotività. Vi sfido a dimostrare il contrario.
22.02.2017