• VENERDì 09 GIUGNO 2023
Interviste, News

La Giovine Italia: Godblesscomputers

Termina con l’intervista a Lorenzo Nada, aka Godblesscomputers, la nostra serie di approfondimenti e interviste con gli artisti delle “Giovine Italia”, citazione mazziniana (nientemeno) per definire tutta la generazione di produttori che attraverso un suono nuovo e molto personale stanno ridefinendo la musica elettronica di questi anni ’10, facendo parlare di sè dentro e fuori i confini nazionali. Godblesscomputers ha pubblicato pochi mesi fa lo straordinario album “Veleno”, un lavoro molto maturo e personale, che ha subito calamitato i favori e l’attenzione di un pubblico e di una critica numerosa, non solo nel circuito elettronico.

Quando hai iniziato ad interessarti alla musica?
Ho iniziato a comporre intorno al 2004, 2005. Prima ho cominciato come dj, sono sempre stato legato all’hip hop, il mio background è quello, perciò il mio vero inizio è stato da dj, collezionavo vinili. I miei genitori mi hanno poi regalato i primi giradischi e da lì la cosa si è fatta più seria. Tutt’ora la mia attività di dj va di pari passo con quella di produttore in studio.

Quali sono state le tue prime esperienze come produttore?
Dalla partenza come dj sono approdato alle prime produzioni di strumentali hip hop, con il gruppo di cui facevo parte a Ravenna, Il Lato Oscuro Della Costa; nel 2010 ho deciso di staccarmi e partire per Berlino, e lì è nato il mio progetto personale Godblesscomputers, un’evoluzione del beatmaking verso derive elettroniche. In questi ultimi anni ho aggiunto, sperimentato, inserito diversi suoni e stravolto tutto. Oggi la mia musica è una miscela equilibrata di varie cose che mi piacciono.

Nello specifico?
Hip hop, dub, soul, elettronica e altro ancora. Non sono sicuro che tutto questo si percepisca in maniera definita, però, se non nei suoni, credo sia piuttosto chiaro nell’attitudine dei miei pezzi. La mia musica non è black ma ci sono molte voci, ad esempio, spesso sono voci black campionate da canzoni soul e poi fatte a pezzi, distorte, strechate, pitchate, rielaborate, ma la provenienza è quella, e in qualche modo, anche se il risultato è molto distante da ciò che era in origine, ne rimane una traccia, un sentore, ed è un’influenza importante sui miei brani.

Sono le influenze presenti nella tua musica. E’ un discorso interessante, questo, perché spesso le influenze restano sottopelle, non si esplicitano. Quando chiedo a un musicista cosa lo influenzi, non mi aspetto risposte come “i miei artisti preferiti sono questo e quello”, oppure “vorrei assomigliare a…”. Magari uno ascolta tantissimo, mettiamo, Miles Davis, e poi fa pop. Oppure ascolta Ramazzotti tutto il giorno e poi produce dubstep. Le influenze sono qualcosa di più sottile.
E’ vero, hai ragione. E non arrivano solo dalla musica. La medesima influenza, per me, arriva dai posti che vedo, dalle esperienze che vivo; io cerco di mettere tutti questi fattori nella mia musica. Tant’è vero che un altro mondo che cerco di inserire nei brani è quello del field recording, delle registrazioni della natura, dei luoghi, prese proprio in loco. Può apparire strano, visto che si tratta perlopiù di tracce strumentali, ma cerco di narrare delle storie, di dare un indizio all’ascoltatore, di suggerire un mood, un umore, lo stesso che io ho provato quando ho prodotto il pezzo, perché per me rappresenta l’espressione di un’esperienza messa in musica, magari il ricordo di una situazione, con le emozioni che ne derivano. Sono delle storie, a loro modo.

“Veleno”, il tuo ultimo disco, ha avuto parecchio successo, soprattutto è piaciuto a molte persone al di fuori della cerchia degli stretti appassionati di genere. Perché?
Un po’ mi ha sorpreso, è andato al di là delle aspettative. Non capisco bene perchè piaccia così tanto, forse succede perché nei miei pezzi cerco di dare delle suggestioni, dei “suggerimenti” evocativi, anche per il fatto che ci sono diversi spunti melodici ed armonici, spesso malinconici, e credo siano caratteristiche che riescono a carpire l’attenzione dell’ascoltatore.

Dopo tanti anni di ascolti, di ogni tipo, ho sviluppato una tesi: se qualcosa è davvero forte emerge, si fa notare, conquista una certa popolarità. Che si tratti di Ligabue o di Flying Lotus, per citare due estremi opposti, in ogni caso si tratta di musica dalla personalità così forte che suscita per forza una reazione, non lascia indifferenti. Gli esempi potrebbero continuare, in entrambi i sensi: da Aphex Twin a Katy Perry, ai Radiohead. Nel tuo caso, finora in misura circoscritta ma significativa, mi pare stia accadendo la stessa cosa. Si accende un interesse nei tuoi confronti, da ascoltatori di elettronica e di indie, ad esempio.
In ultima analisi è così, la tua “tesi” è vera. Credo che un artista debba trasmettere se stesso nella sua musica, allontanandosi dai cliché di genere e cercare un proprio percorso, uno stile distinguibile. Francamente non credo che sia semplice e scontato, ma nemmeno così difficile. In molti progetti che sento manca proprio quella personalità che dici. E’ vero, molte cose sono già state inventate, però c’è sempre una novità da scoprire, anche riassemblando elementi di altri stili e generi per fonderli in qualcosa di nuovo. Gli artisti che seguo maggiormente, Burial, Bonobo, James Blake, sono tutti personaggi riconoscibili al volo, dopo trenta secondi, ed è questo che mi affascina, questa capacità di rendere così forte la propria identità sonora. Nel mio piccolissimo sto cercando di lavorare a questo, a rendere il mio sound molto personale, e quando qualcuno me lo dice ne sono felice, è un grande complimento.

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Secondo te questo nuovo sound italiano, declinato nelle varie interpretazioni che la nuova generazione di producer del nostro Paese sta dando, ha la possibilità di uscire dal sottobosco nazionale e di diventare qualcosa che può affermarsi a livello perlomeno europeo?
Quello che vedo è un disinteresse, a livello europeo, verso la scena italiana, da una parte perché è una scena – ammesso che lo sia – molto giovane, e poi perché c’è da lavorarci, bisogna provare a giocarsi le proprie carte, proporsi ad agenzie, etichette, uffici stampa europei. Spesso quando si suona all’estero con artisti importanti, si instaura facilmente un dialogo, e questo dovrebbe incentivarci a crederci.

In concreto cosa significa?
Significa organizzarsi e affrontare con maggiore serietà e pragmatismo tutti gli aspetti manageriali e promozionali che permettono alla musica di affermarsi su scala internazionale. Mi è capitato di suonare insieme ad artisti piuttosto affermati, come Gold Panda o Com Truise, e a fine serata ricevere i loro complimenti e il loro interessamento. Questo dev’essere un incentivo per dire “ok, posso giocarmela”, però poi va fatto il passo, vanno investite energie e soldi in termini di management, ufficio stampa, promozione. Non so se sia una cosa bella o brutta da dire, è un ragionamento che credo debba andare di pari passo con quello artistico.

Mi trovi d’accordo. Sono convinto che ognuno di questi ruoli debba essere ricoperti da chi lo sa affrontare: gli artisti devono pensare alla musica, gli altri aspetti devono essere gestiti da professionisti abili e capaci di farlo.
Esatto. Anche perché, se è vero che internet ha abbattuto molte barriere e puoi scrivere direttamente al boss di una label o a un grosso artista, c’è il lato opposto della medaglia: il mercato è così saturo che sono ancora necessarie delle figure che sappiano portare il lavoro di un bravo artista alla giusta esposizione.

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Albi Scotti
Giornalista di DJ Mag Italia e responsabile dei contenuti web della rivista. DJ. Speaker e autore radiofonico.

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