• VENERDì 09 GIUGNO 2023
Interviste

Home Festival: come costruire un successo

In Italia la stagione dei festival sembra essere, paradossalmente, quella indoor: Elita, l’imminente roBOt, Club TO Club. Ma anche il periodo estivo sta iniziando a farsi interessante, con eventi dal respiro internazionale. Come si organizza un festival di successo? Qual è la spinta che mette in moto un grande evento? E quali sono i problemi a cui si va incontro? Come ci si rapporta al territorio? All’inizio di settembre, Home Festival a Treviso è stato un successo. Pubblico numeroso, line up con artisti molto diversi tra loro nei quattro giorni di programmazione, molti stand e spazi adatti all’intrattenimento extra-musicale. Una delle realtà italiane più vicine agli standard europei. Non è tutto rose e fiori, anche se i difetti sono imputabili più a un’organizzazione logistica cittadina che non al team del festival (da quanto ho visto, credo sia stata sottovaluta la portata dell’Home: traffico in tilt, zero parcheggi, navette decisamente al di sotto della domanda).
Ma in un Paese come l’Italia, dove il mantra sembra essere quello delle cose-che-non-si-riescono-a-fare, del gap con molti Paesi europei in fatto di organizzazione dei grandi eventi -ance se le cose stanno davvero cambiando, e oltre a quelli di prima possiamo citare Nameless e Ypsigrock tra i fiori all’occhiello italiani-, Home diventa un esempio di verso opposto. Ho intervistato Amedeo Lombardi, ideatore e fondatore del festival veneto.

 

 

La mia impressione è che Home Festival sia una realtà in costante crescita, e un tentativo riuscito di mettere insieme un tipo di festival che in passato in Italia è spesso naufragato, mentre nel vostro caso mi pare che di anno in anno cresca il pubblico, cresca la reputazione e cresca l’appeal del festival. Come si organizza un evento come questo?
Con molta voglia di fare qualcosa di importante e con tanta buona volontà. La prima edizione, nel 2010, era quasi una “festa del bar” che frequentavo, portata avanti con molto impegno ma senza grandi aspettative e nessuna certezza. Anno dopo anno abbiamo cercato di migliorare tutti gli aspetti del festival, di essere professionali. Cambiano i gusti del pubblico, le mode, alcuni artisti che magari ci piacciono non sono alla nostra portata o non sono semplicemente più al top per il pubblico. Lo stesso vale per i generi musicali e per altri aspetti dell’evento: anche la comunicazione cambia, e bisogna lasciarla fare a chi ne è esperto. Una risposta alla tua domanda è quella di costruire, nel tempo, una squadra che sia forte, coesa, e sappia gestire ogni lato dell’organizzazione con competenza, voglia di lavorare ed entusiasmo. Detto così sembra facile, ma non lo è affatto, gli errori sono tanti e basta poco perché le cose vadano male.

Quante persone c’erano alla prima edizione?
La prima edizione ha fatto circa 20mila spettatori, siamo partiti subito con la formula dei due palchi, con sei band. Avevamo un headliner forte, Elio E Le Storie Tese, ma non avevamo assolutamente idea di come potesse andare.

E’ andata piuttosto bene, mi pare di capire. Da lì come avete sviluppato il progetto?
Coinvolgendo più persone, investendo sulle risorse umane. Quelli che oggi sono le figure cardine del festival e della sua organizzazione, prima avevano tutti altri lavori. Dal punto di vista della produzione e della linea musicale, bisogna saper capire il momento, è stato necessario creare un percorso, perché cambiano le dinamiche, e come ti dicevo prima, quello che andava forte cinque anni fa oggi magari non va più. I grandi raduni oggi sono soprattutto dance. Io e gli altri ragazzi della squadra veniamo da un background rock, ma questo non dev’essere un limite, dobbiamo adeguarci: siamo passati da Elio a Kalkbrenner. Lo sviluppo è stato anche in termini di pubblico, abbiamo toccato un picco di 110mila persone quando Home era a ingresso gratuito.

Ora avete deciso di mettere il biglietto a pagamento.
Sì, certo. Non era più sostenibile l’ingresso gratis nell’ottica di offrire un festival con nomi importanti e un’alta qualità. I costi crescono per i cachet degli artisti ma anche per tutte le altre spese di gestione. Chiaramente ciò ha portato a una flessione del numero di spettatori, l’anno scorso erano 70mila. Quest’anno le previsioni sono in crescita, e per la prima volta siamo finalmente riusciti a fare quello che idealmente avevamo in testa: una line up di quattro giorni in cui sono presenti il pop, il rock, la dance, il rap. Fedez, Subsonica, Tommy Trash, Paul Kalkbrenner, J Ax, i Negrita. Mi sembra un tipo di festival in linea con il melting pot sonoro che vedo in giro per l’Europa. E anche il “brand Home” sta crescendo in riconoscibilità e considerazione.

 

 

Perché, secondo te, in Italia non ci sono molti festival con il melting pot sonoro che vedi in giro per l’Europa, per usare le tue parole?
Per molte ragioni: in Italia il termine “festival” è abusato e travisato. Per troppi anni si è chiamato “festival” una manifestazione con un grosso nome e quattro/cinque act di apertura. Le agenzie non entravano nella mentalità dei diversi palchi, di una programmazione dove un big suona il pomeriggio su un palco e un altro la sera su un palco differente. Il pubblico italiano è molto difficile, le ragazze vengono qui con i tacchi, le persone sono abituate a stare comode, mentre nel mondo l’idea del festival è associata alla libertà e all’essere fuori dall’ordinario: il fango è parte dell’immaginario di Glanstonbury e i costumi da bagno del Coachella.  Rototom, Goa Boa, Heineken, erano situati in aree del genere, poi per varie ragioni queste realtà sono finite. Oggi vince quella che si dice “experience”: tanti palchi, un coinvolgimento totale, una proposta ampia, anche sui fattori extra-musicali, come la cucina, l’ambiente, la location. E noi in Italia abbiamo perso tanti anni, un decennio in cui all’estero sono cresciuti nel modello di business e nell’organizzazione. Si è creato un gap.

Com’è possibile che una città da 100mila abitanti, come Treviso, sia congestionata nel traffico e disorganizzata nei servizi (trasporti, parcheggi) per un festival da 40mila persone a sera, e un paese come Boom, in Belgio, che ne conta 10mila, può sopportare un Tomorrowland, dove il flusso supera le 100mila giorno?
Beh, Olanda e Belgio sono storicamente preparate a grandi eventi, i rave di un tempo si sono via via organizzati e convertiti in festival, con tutti i cambiamenti del caso. Culturalmente, tu m’insegni che label storiche come R’n’S e compagnia bella hanno portato una diffusione capillare di un certo tipo di musica da almeno vent’anni in qua. Quindi è naturale che da quelle parti esista una mentalità diversa e una maggiore organizzazione. Da noi fai sempre fatica a parlare con le istituzioni, un po’ perché la burocrazia è davvero scoraggiante, certe volte, un gioco di rimbalzi e scaricabarile di competenze che non aiuta l’efficienza e l’organizzazione di un festival, e poi perché quando parli con un’amministrazione di numeri e progetti di un certo livello, e vieni comparato alla sagra, capisci bene quanta poca cultura esista in merito. Non sanno proprio con che cosa hanno a che fare.

Ma non sanno o sono in malafede? Perché ormai è sotto gli occhi di tutti che queste manifestazioni portano più vantaggi che guai.
Qui entriamo in un territorio che non è il nostro, Albi. Chi fa politica deve tenere un occhio agli elettori, e in molti preferiscono assecondare un certo tipo di elettorato. Non sto parlando di destra o sinistra, ma proprio di un enorme bacino sociale che preferisce stare in casa e vede ogni iniziativa del genere come un problema e non come un’opportunità. Tradotto, significa vedere un festival come un luogo di aggregazione per tossici, sbandati, gente che vuole fare tardi, spaccare tutto e fare casino. Pregiudizi vecchi come il mondo, perchè con un po’ di informazione e un’analisi attenta di ciò che accade in giro per il mondo anche l’amministratore meno lungimirante capirebbe che qui si tratta di sviluppo artistico, di investimento culturale e anche di una grande risorsa economica. ma invece si tende sempre a guardare i decibel e a stressare perché il volume non sia troppo alto…

Due nomi: un artista che sei particolarmente orgoglioso di aver portato a Home e uno che vorresti portare in futuro.
L’orgoglio è sicuramente un band locale a cui siamo molto legati: Rumaterra, perchè abbiamo portato un gurppo di amici, sconosciuti al grande pubblico, sul mainstage, è stata una scommessa vinta. L’artista che mi è piaciuto di più portare qui è stato The Bloody Beetroots, perché vedendolo sempre in giro per l’Europa davanti a 20mila persone, ci è sembrato bellissimo portarlo anche qui, in casa sua, in Veneto, su un palco del genere. Chi mi piacerebbe? I Daft Punk, perché il loro concerto del 2007 al Traffic di Torino è stato uno dei momenti più belli della mia vita.

E’ stato generazionale.
E’ vero. Infatti è grazie al Traffic Festival se abbiamo avuto l’entusiasmo per fare Home.

Mentre saluto Amedeo, parlo con Carlotta Zuccaro, ufficio stampa del festival, e ci scappa pure qualche domanda a una persona che si occupa di un ruolo solitamente relegato al “dietro le quinte”.

Cosa significa fare press office per un festival?  
Significa innanzitutto preparare una grande mole di lavoro “pre”, cioè arrivare a inizio manifestazione con una serie di lavori già svolti, come la promozione e la diffusione stampa; e poi lavorare rapidamente per diffondere i contenuti che si generano giorno per giorno. Rispetto al lavoro con una band, qui non si tratta solo di promozione via email, o via social, ma di stare sul posto in mezzo alle persone e all’organizzazione, perciò ogni sensazione viene amplificata, in positivo o in negativo. Si percepisce molto dell’umore che si ha intorno, anche se non si è mai in grado di dire se davvero un evento è riuscito finché non è finito e si traggono i bilanci.

A livello umano qual è la categoria più difficile da gestire? Chi ti crea più stress?
Mi avvalgo della facoltà di non rispondere! Scherzi a parte, ogni categoria lavora in modo diverso e necessità di esigenze diverse. I giornalisti hanno le loro richieste e vanno assecondati e seguiti, a parte mia devo essere attenta a gestire i bisogni dell’organizzazione ed essere dinamica e rapida.

Gli artisti sono capricciosi?
No, di solito non creano problemi. Sono le persone che girano intorno agli artisti a crearne: manager, agenti, crew. Ma semplicemente perché il loro lavoro è quello di stare dietro ai loro clienti facendo in modo che tutto vada per il meglio, perciò, comprensibilmente, sono premurosi.

Secondo te, noi, e intendo un grande “noi” di artisti e operatori del settore, riusciamo a uscire dal nostro mondo, a comunicare con il pubblico che è là fuori, a quelli che non sono nella ristretta cerchia degli appassionati che si formano comunque, ma vanno proprio raggiunti attraverso l’informazione?
Secondo me sì. Sicuramente attraverso gli artisti più noti, da mainstage, sono un cavallo di Troia, perché la stampa generalista e i media meno specifici vogliono sempre qualche nome già famoso su cui puntare. Però credo che se si lavora in modo intelligente e costante, si può vincere questo stato di cose e nel tempo arrivare a parlare a una platea popolare ampia.

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Albi Scotti
Giornalista di DJ Mag Italia e responsabile dei contenuti web della rivista. DJ. Speaker e autore radiofonico.

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