Tom Krell, dai più conosciuto con lo pseudonimo How To Dress Well, è un musicista, producer e cantante americano che si innesta nel grande calderone della musica elettronica più ricercata e d’avanguardia. Il suo sound è difficilmente collocabile, e già questo lo rende interessante; sta da qualche parte tra la canzone, i glitch, territori vicini al jazz, e l’elettronica rarefatta e post-tutto degli ultimi anni.
Tom si esibirà il prossimo novembre al Club TO Club di Torino, festival che anche quest’anno conferma la sua ormai consolidata fama di eccellenza riconosciuta a livello mondiale. Prima della sua venuta in Italia, l’ho raggiunto al telefono (Tom, non il festival) per parlare del suo ultimo album, delle sue ispirazioni, dei suoi live e di altro ancora. Ho trovato un personaggio riservato, per certi versi schivo, ma allo stesso tempo coinvolgente e coinvolto sugli argomenti di cui abbiamo parlato.
Inizio, come mi piace spesso fare, dalla fine: il tuo ultimo album “What is this heart?” uscito quest’anno su Domino. Rispetto al precedente “Total loss” quali sono le differenze maggiori? Qual è stato il tuo percorso tra i due album?
Non so dirti di preciso quali grandi differenze ci sono tra i due dischi, non avevo l’esigenza di cambiare rotta a tutti i costi o di dover sperimentare suoni o idee radicalmente diverse. “Percorso” è forse il termine più azzeccato, perché ho continuato il discorso iniziato con “Total loss” e l’ho evoluto nei nuovi brani, cercando i giusti ingredienti perché le cose funzionassero.
La tua musica suona molto personale, poco definibile, non è semplice capire quali riferimenti hai. Quali sono le tue principali ispirazioni?
Io ascolto tanti artisti diversi, non mi piace catalogare per generi e non so dirti come definire la mia musica né quella di altri. Mentre scrivevo “What is this heart?” ho ascoltato tanto Sun Kil Moon, Fuck Buttons, The Dream, come vedi artisti con suoni abbastanza eterogenei.

Uno dei pochi aggettivi che mi sento di associare alla tua musica, con certezza di non sbagliare, è “soffice”. In un momento in cui nel tuo Paese – e non solo – buona parte delle cose che sembrano funzionare di più, soprattuto in ambito elettronico, sono invece potenti e aggressive, come ti rapporti al mercato?
Cerco di trovare il mio spazio. Io scrivo la musica che mi sento di fare e la propongo al pubblico, non mi rivolgo in modo specifico ad un mercato, spero possa piacere. In effetti in America non sono così conosciuto, sicuramente in Europa ho più seguito. Credo che la mentalità europea rispetto alla musica, alle avanguardie, sia più aperta, anzi più educata, nel senso che il pubblico è più preparato. Penso che ciò sia il frutto di una tradizione musicale molto più lunga rispetto a quella americana. Negli USA un artista sperimentale fatica ad affermarsi e ad avere credito nel circuito discografico e anche tra il pubblico.
E’ buffo perché spesso gli artisti americani mi dicono così, mentre gli europei dicono esattamente il contrario.
Beh, probabilmente è vero anche questo, sia perché ogni pubblico vede un motivo di curiosità in più nell’artista “esotico”, sia perché gli artisti stessi vedono l’opportunità di suonare in un altro continente come uno stimolo in più, c’è la curiosità, il rapportarsi con abitudini differenti nel pubblico e nelle modalità di esibirsi.
Sono fattori sicuramente rilevanti. Negli ultimi anni sono stato diverse volte negli Stati Uniti, e trovo che il pubblico sia mediamente molto curioso e ricettivo, però allo stesso tempo, un po’ meno preparato rispetto a quello europeo; forse, come dicevi, “educato” è la parola corretta.
E’ così, te lo posso dire perché ho vissuto per un periodo in Europa, a Berlino, ed è stato fondamentale per me, ha cambiato il mio approccio alla musica. Anche se mi sento sempre molto americano nella mentalità e nel mio essere musicista.
Prossimamente sarai in Italia con il tuo tour: come porti in giro i tuoi pezzi dal vivo? Quale è il tuo set up sul palco?
Siamo in quattro, io e altri tre musicisti: un batterista, un tastierista che si occupa anche della parte elettronica, quindi sintetizzatori, campionamenti e macchine varie, e un polistrumentista bravissimo; riesce ad arricchire gli arrangiamenti delle canzoni in modo straordinario.
Quindi arrangiamenti diversi dall’album?
Sì, certo. Le canzoni non vanno snaturate, però sono dell’idea che un album e un concerto siano due situazioni diverse, e così dev’essere l’interpretazione dei pezzi. Certe soluzioni che sul disco sono perfette, dal vivo sono deboli o inadeguate, perciò vanno rimesse a punto. E’ un equilibrio delicato, si deve tener conto dei musicisti, di come si suona, di come è possibile rendere i brani live, dell’impatto che devono aver sulla gente che viene a sentirci.
Sono d’accordissimo, arrangiare un brano in un modo o in un altro cambia completamente le carte in tavola.
E’ una sfida, bisogna capire da dove partire, quali elementi conservare, quali cambiare, quali togliere o aggiungere. E’ uno stimolo grandissimo e allo stesso tempo un motivo di grandi difficoltà.
21.10.2014