“C’è un’Ibiza che non ha nulla a che vedere con l’Ibiza comune e popolare la cui immagine è venduta nel mondo. La volgarità dei milionari di oggi sommata alla crescita sovrumana cui l’isola è stata sottoposta e a una certa mediocrità generale della cultura spagnola, ha fatto sì che lo spettacolo ora non sia dei migliori. Questo era un mondo sperduto, una meraviglia. Quando sono arrivato senza un soldo nel 1968 il Pacha non aveva telefono, l’acqua la portavano con le cisterne e tutti avevano vaticinato il fallimento perché per venire da me si sarebbe dovuto prendere la macchina, un’assurdità per quei tempi”.
Sono parole amare che pesano come un macigno perché a pronunciarle è Ricardo Urgell che ha da poco venduto il gruppo Pacha per 350 milioni di euro. Nell’anno dei festeggiamenti per i 50 anni del brand, a ottant’anni compiuti, Urgell ha ceduto il 90% al fondo di investimento Trilantic Capital Partners con sedi a New York e Londra. In una breve ma intensissima intervista con il magazine on line del Sole 24 Ore, l’ex patron mette nero su bianco un testamento ideologico: “Sì è vero, abbiamo dovuto seguire la moda dei super-club, anche se ho voluto che il Pacha mantenesse la sua identità di casa payesa ibizenca. Ma non è l’unico aspetto che abbiamo dovuto accettare. Quel che più mi è dispiaciuto negli anni è aver visto stravolto il senso della discoteca, che io chiamo el baile, perché si suppone che ci si venga a ballare. Il ballo è alla base della storia dell’umanità. Da che si combattono guerre, si lotta per la sopravvivenza, ci si sposa e si procrea, la gente ha sempre ballato. Oggi mi domando che cosa abbiamo contribuito a creare: la notte ibizenca ha perso la propria anima. Oggi è una notte di bobos (tonti), è come andare alla partita di pallone: la gente non balla, si limita ad alzare le braccia al cielo e a fissare il dj, cosa peraltro incomprensibile dal momento che i dj sono tutti orribili”.

L’articolo, intitolato senza mezzi termini “I dj hanno rovinato la notte di Ibiza”, non lascia spazio a nessuna interpretazione. Ricardo Urgell lascia in eredità un quadro impietoso. Non deve essere facile osservare da vicino un cambiamento così drastico. Non è altrettanto facile accettare le cose che non si possono più cambiare. C’è chi la chiama decadenza, chi massificazione, chi evoluzione. Il Pacha è stata la prima discoteca moderna del mondo. La prima ad applicare in maniera sistematica concetti di marketing alla propria strategia al fine di fidelizzare i clienti. Ha inventato mode, tendenze e residenze anticipando i tempi così tanto che oggi è costretta rincorrerli. Essere al Pacha voleva dire essere liberi, unici, esclusivi ma inclusivi. Oggi dalle parole di Urgell sembra una condanna. Il jet set che negli anni settanta ha creato il concetto di apparenza è esploso nella società e imploso nei social network.
Non credo assolutamente che i dj abbiano rovinato la notte di Ibiza. Così come non credo che li va a vedere sia tonto. Oggi lo stato dell’arte è libero, democratico, globalizzato. Puoi farti la tua playlist, ascoltare la musica che vuoi, dove, come e quando vuoi, senza nessuna imposizione e obbligo. E’ un mondo semplice ma tremendamente più complesso perché aggiunge un elemento che prima non c’era: la scelta. Ho il massimo rispetto, reverenza, ammirazione per i pionieri che venero ogni giorno come degli dei. Senza di loro non saremmo qui a parlare del baile. Ma ha volte ho l’impressione che il presente e il futuro cadano troppo facilmente sotto il fuoco amico di una facile condanna. Al Pacha è diventato impossibile ballare. Il locale viene riempito allo stremo. Nelle feste principali se non hai un tavolo da migliaia di euro non riesci né a divertirti, né a muoverti. Tutti vogliono entrare al Pacha, il Pacha vuole che tutti entrino. Non è questa la sede per approfondire questioni economiche ma il concetto mi sembra abbastanza palese. La domanda è aumentata in maniera inaspettata. Appena dieci anni fa, in pochi avrebbero scommesso sulla saturazione della scena. Il problema vero è che el baile non c’è neppure quando ci sarebbero i margini di una sua esistenza. È veramente complicato affrontare il problema. Il rischio di cadere nella banalità e nella retorica è troppo alto. Chi glielo spiega ad un ventenne che c’è una vita oltre Instagram? Attori e spettatori sono intrappolati insieme da un sistema alimentato con forza da entrambi le parti.

Ibiza è morta e rinata una decina di volte e continuerà sempre a rigenerarsi. Arriverà un momento (spero mai) in cui i club dell’isola saranno semivuoti (alcune situazioni lo sono già state in tempi recenti) e rimpiangeremo il pigia-pigia. Arriverà quel giorno in cui un dj non verrà più fotografato e si chiederà il perchè, in cui nessuno si geolocalizzerà più in un club che quindi metterà in dubbio la sua efficacia. Magari non succederà niente di tutto questo e il Pacha di Ibiza sarà la location di una prossima puntata di “Black Mirror”. Sicuramente Ricardo Urgell ha ragione, sicuramente quella di oggi non era l’Ibiza che si era immaginato quando ci è arrivato nel 1968. Secondo il regista Ridley Scott il prossimo anno il cacciatore di taglie Rick Deckard, agente dell’unità speciale Blade Runner, darà la caccia a quattro replicanti. Basta avere un po’ di fantasia e abilità nell’uso della metafora per capire che non c’è andato poi troppo lontano, che il futuro immaginato non è mai così distante da come poi è effettivamente diventato.
13.10.2017