Il boom dell’EDM ha avuto enormi ricadute su tutto il panorama dell’industria musicale. Questa improvvisa ma duratura impennata di popolarità globale, oltre a evidenti ricadute positive – crescita esponenziale degli appassionati, aumento del numero e della grandezza dei festival, innalzamento al rango di superstar di molti dj e produttori – ha messo sul piatto o acuito una serie di questioni che hanno letteralmente spaccato il mondo della musica elettronica: l’eterna guerra tra mainstream e underground, tra i sostenitori dell’analogico e quelli del digitale, tra i puristi del vinile e quelli della chiavetta sono solo gli esempi più popolari. Negli ultimi anni, soprattutto grazie alla proliferazione della tecnologia e all’aumento di popolarità della figura del dj, si è aperto anche un altro fronte: l’arte del djing è in pericolo?
La realtà musicale più sensibile a questa tematica è sicuramente quella cosiddetta “underground” che, fiera di rimarcare in ogni occasione la propria distanza dalla galassia mainstream (quando in realtà collaborano benissimo, come dimostra la distanza esigua tra il main stage di UMF e Arcadia), si fa fiera portatrice di un approccio purista al djing. Un interessante esempio è ‘ODYSSEY’ – A Short Film about the Art of Djing, un documentario realizzato da Mark Knight, boss di Toolroom, una delle più importanti etichette house e techno dell’ultima decade, proprio su quella che viene definita l’arte del djing. Al suo interno, leggende come Danny Tenaglia, Roger Sanchez, Andy C e lo stesso Knight insistono sull’importanza dei set dalla durata lunga ed estesa al contrario degli slot di festival e club che vedono i dj susseguirsi come all’interno di una catena di montaggio.
“Per me fare il dj non è solo urlare qualcosa al microfono e alzare le mani al cielo; per me è essenzialmente raccontare una storia, creare un viaggio, portare con me le persone da un mood a un altro”, afferma Roger Sanchez.
Mark Knight affonda in maniera ancora più dura: “ritengo che il djing, specialmente negli extended set, sia una vera forma d’arte. Al giorno d’oggi, con tutta la tecnologia che c’è a disposizione di chiunque, è davvero semplice riempire due ore con una raccolta di tracce mixate a tempo. Ma questo non è vero djing. La vera arte del djing è riuscire a catturare il pubblico, interagire con loro e trasportarlo all’interno di un viaggio per quattro, sei o dieci ore”.
Parole molto nette quelle spese da questi artisti, parole dette da persone che sanno ciò che dicono ma che fanno pensare, che alimentano dibattiti e dividono. Perché, anche se non si fanno nomi, la critica è palesemente indirizzata ai grandi festival e club internazionali e, a tutto il sistema che risponde al nome di Electronic Dance Music.
E’ innegabile come la proliferazione di line up chilometriche – perché così vuole un certo tipo di mercato: tanti artisti in poco tempo – abbia generato, a vari livelli, effetti sia positivi che negativi. Il pubblico da un lato ha la possibilità di apprezzare in una sola giornata un numero altissimo di artisti ma, dall’altro, corre il rischio concreto di assistere a dj-set fotocopia in cui il rischio è sempre calcolato e la spontaneità latita. Gli artisti, allo stesso modo, hanno più possibilità di calcare palchi importanti ma, in quell’ora, devono essere perfetti, generalisti e sincronizzati come degli orologi ai visual. L’azzardo non è tollerato, le hit devono esserci tutte e la volontà di convincere rischia di sempre maggiore di quella di stupire. Il risultato? I famosi (e pallosissimi) dj juke-box, talmente attesi da deludere, in cui l’hype si taglia con il coltello e la scaletta si conosce a memoria ancora prima ci essere presentata.
Ma non è sempre così. Anzi, negli ultimi anni anche su palchi di primissimo piano molti artisti hanno osato, stupito, spaccato, fatto parlare di sé anche senza sciorinare solo le proprio hit o fare set preconfezionati. Le sorprese non sono mai state così tante e la varietà così ampia! Siamo in un momento di transizione e questo, quando non genera un arrendevole atteggiamento di fuga nel passato, è un volano per il nuovo che avanza. E’ quindi giusto affermare che – a parità di backgroud e capacità tecniche – la vera arte del djing sia una questione di tempo e sia di proprietà di chi fa set più lunghi (che poi, lunghi quanto)? Certo, è innegabile: più tempo equivale a più tracce. Più musica equivale a maggiore libertà espressiva e più istintività. La modalità con cui un dj si approccia a un viaggio musicale di sei ore è totalmente differente rispetto a quella di un festival-set di un’ora, tuttavia mi chiedo se questo basti a definire un’arte o meglio, a non definirne un’altra. Mark Knight afferma che “è essenziale far respirare la musica e il dancefloor”. Ma se “l’apnea” dei festival fosse ugualmente degna di essere considerata arte? Tralasciando i set-fotocopia, ci sono molti artisti che in un’ora creano meraviglie. Il primo esempio che mi viene in mente? Il dj set di Hardwell sul main stage di Ultra Music Festival 2013: un capolavoro balistico che lo ha lanciato sulla vetta della nostra Top 100 – ma gli esempi sarebbero infiniti. Non ditemi che quella non è arte, che non è maledettamente difficile condensare in un’ora il proprio io musicale o che sia semplice approcciarsi ad un palco prestigioso, sia esso il più piccolo stage di Creamfield o l’immenso main stage di Tomorrowland.
E’ giusto salvaguardare entrambi queste modalità di espressione ma è altrettanto giusto dare loro pari dignità. Il djing è nato sulle lunghe distanze, con extended set che abbracciavano molte ore e che prevedevano pochi dj in consolle venerati come leggende. Questa è la nostra storia, non possiamo dimenticarcene, non possiamo fare finta che ciò non sia parte del DNA della musica da ballo – mainstream o underground che sia –, tuttavia non so fino a che punto sia veritiero pensare che le consistenti line up di club e festival stiano mettendo in pericolo quest’arte. Non è una guerra tra passato e presente, tra storia e progresso, tra vecchie leggende e giovani superstar. Sono due modi di esprimersi simili ma diversi con un solo obbiettivo in comune: far divertire.
Forse la miglior riposta a questa questione potrebbe nascondersi in una delle migliori uscite del giovane Madeon: “anyone hating any genre of music simply doesn’t know the context in which it meant to be enjoyed”.
Rispettiamoci a vicenda, il djing non è altro che la capacità di suscitare emozioni e sentimenti capaci di smuovere il mondo. Conta davvero il come o il quanto?
07.04.2017