• DOMENICA 16 NOVEMBRE 2025
Festival

La Stella Dentro brilla. Forte

Un'edizione ricca di rinnovamento, vivace, fresca e al tempo stesso capace di non rinnegare tradizione e peso specifico della Biennale

Foto: Andrea Avezzù per La Biennale/DMT

Negli ultimi anni siamo stati sempre alla Biennale Musica di Venezia. Un appuntamento diventato ricorrente nella nostra agenda, nonostante non si tratti di un classico festival di musica da club, con il solito muro dei soliti nomi snocciolati in ordine alfabetico o di peso specifico nel settore. Anzi, forse proprio per questo ci incuriosisce la Biennale. Perché è uno spazio, un luogo dove si può spingere sull’acceleratore della sperimentazione, che è proprio la missione di questa istituzione. Va detto però che la Biennale 2025 era attesa con particolare curiosità, per via della nuova curatrice, Caterina Barbieri, personaggio cult, capace da sempre di essere trasversale, affascinante per il mondo della musica che va nelle installazioni dei musei di arte contemporanea come per i cartelloni dei festival e dei club che sanno guardare avanti. Musicista, compositrice, e molto di più, per sintetizzare. Una figura che si è saputa costruire un grande rispetto attorno, attraverso una carriera in cui ha tracciato il proprio percorso senza sbavature (che poi detta così pare che parliamo di una decana degli ambienti musicali, in realtà – e forse è un ulteriore motivo di plauso – Barbieri è nata nel 1990). 

Dunque l’avvento di Caterina Barbieri poteva essere un’opportunità incredibile anche per la Biennale, per svecchiarsi e aprirsi a mondi contaminati grazie a una figura amata in tanti ambienti diversi, oppure la classica occasione sprecata, se i pianeti (leggi: le intenzioni e il feeling) non si fossero allineati.

Meredith Monk premiata con il Leone D’Oro alla carriera, tra il presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco e la direttirce artistica Caterina Barbieri. Foto: Andrea Avezzù per La Biennale/DMT

Quello che abbiamo visto ci fa dire con gioia che si è realizzata la prima delle due. Il cartellone metteva in campo nomi che dalle parti della Biennale potevano essere impensabili, ma che hanno deliziato chi con un po’ di lungimiranza auspicava questa trasformazione da tempo: nel rispetto della tradizione, una sana e contemporanea innovazione, se vogliamo anche pragmatica per certi versi, ma necessaria per incuriosire un pubblico nuovo e – perché no? – tentare di attirare più paganti. Come dicevamo, missione compiuta. La prima Biennale firmata Barbieri è passata da nomi monumentali come Meredith Monk, peraltro premiata con un Leone D’Oro alla carriera che ci ha reso partecipi di una cerimonia sentita, commovente, calorosa, e da un’innovazione brillante come quella di Mabe Fratti o di Asa-Chang & Junray, fino a una serata esplicitamente da club con protagonisti Mia Koden e Carl Craig.

E la classica? Ammesso che sia ancora definibile tracciare certi confini, e che sia corretto farlo, la Biennale 2025 ha visto in campo opere come quella di William Basinski, di Moritz von Oswald, pioniere techno diventato ormai a tutti gli effetti un compositore rispettato negli ambienti della classica contemporanea (qui in un’opera per coro da sedici elementi), e ancora Ellen Arkbro, Agnese Meguzzato, e la prima assoluta italiana di Elevations di Maxime Denuc.

Foto: Andrea Avezzù per La Biennale/DMT

Dunque, tutto benissimo? Verrebbe da dire di sì. Naturalmente, e qui entriamo nello spinoso campo del gusto personale (ma cerco sempre di tenere conto anche degli umori di amici, colleghi, e spettatori assorbiti dopo i concerti tra un cicchetto e un bicchiere di bianco), alcuni artisti hanno convinto di più, altri meno. Partiamo da questi ultimi: Fennesz portava con sé aspettative alte, un po’ deluse da un live fuori fuoco, monotono, per nulla incisivo e senza alcuna vibe. Il già citato Carl Craig non ha brillato: lo scrivo con rammarico, è uno dei tre o quattro producer più influenti e leggendari della storia della techno (e non solo), ma come dj è sempre stato incostante, e a Forte Marghera non ha dato il meglio di sé. Al contrario, Mia Koden ha saputo interpretare alla grande la situazione, con un set coinvolgente, ben gestito, accattivante e ricco di groove, anche laddove i salti stilistici erano arditi ma sempre a fuoco.

I maggiori successi però sono quelli di Asa-Chang & Junray, un live spassosissimo, carico di sample, easter egg, momenti divertenti al limite del cabaret in musica ma contemporaneamente molto, molto artistico, alto, in equilibrio tra due anime distanti eppure accomunate dall’abilità di questo trio straordinario nel saperci prendere per mano per tutto la durata del concerto. E poi Mabe Fratti, sia in teatro (voce e violoncello, chitarra elettrica e batteria), sia nel breve momento sull’Isola di Sant’Andrea con solo voce e violoncello e chitarra elettrica (ci torniamo tra poco): un live semplicemente strepitoso, impeccabile, meraviglioso, con una musicalità e una vocalità straordinarie.Una voce pazzesca, il violoncello utilizzato molto al di là dei confini a cui siamo abituati, e un gioco costante con il chitarrista (e il batterista, in teatro) perfettamente in grado di portarci dove desiderano.

Foto: Andrea Avezzù per La Biennale/DMT

Ma dicevamo, l’Isola di Sant’Andrea: siamo stati portati lì per assistere a Star Chamber (e qui cito cirettamente il sito della Biennale): “un sogno nel sogno: un viaggio mistico musicale verso un’isola della laguna di Venezia, avvolta nel mistero. Utilizzando l’isola come palcoscenico, quest’opera multi-artistica esplora il suono, lo spazio e la percezione attraverso una serie di interventi sonori e performativi site-specific”. In pratica, mentre esploravamo un percorso tra le rovine architettoniche dell’isola, a ogni tappa ci aspettava una performance. Anzi, a dirla tutta si parte mentre siamo ancora in barca, con lo spoken di Hanne Lippard. Arrivati sull’isola, ci accoglie Bendik Giske con il suo minimalismo al sassofono. Non la mia tazza di tè, a dire il vero, ma contestualizzato nell’intero percorso, assume il suo significato. Poi, Mabe Fratti e Héctor Tosta. E quindi, il grandioso coro a sei voci Graindelavoix, semplicemente magistrale. Un’esperienza mi(s)tica.

Insomma, se negli anni passati ci siamo affacciati con curiosità alla Biennale nutrendo però sempre qualche perplessità riguardo la possibilità di uscire dal pure nobile “giro” di persone appassionate, in favore di un gusto più contemporaneo e di un termometro più sensibile a ciò che accade “qui fuori”, la prima edizione di Caterina Barbieri ha realizzato le (perlomeno personali) altissime aspettative su un’isituzione che poteva dare un colpo di reni di rinnovamento senza perdere la propria credibilità e trasformarsi nella copia di altre manifestazioni più “festivaliere”. Missione compiuta, e siamo sicuri che è solo l’inizio.

 

 

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Albi Scotti
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