• LUNEDì 05 GIUGNO 2023
Interviste

Laurent Garnier: la hit estiva inattesa, i club, i festival, la magia della consolle

I club, che sono meglio dei festival. La radio, che dovrebbe essere più libera. L'Italia, che è migliorata e dove oggi viene a suonare con grande piacere. Uno dei più importanti dj di tutti i tempi si racconta in una lunga entusiasmante intervista

Una domanda che viene spesso rivolta agli appassionati di musica elettronica e a chi lavora nel settore è questa: “chi è il tuo dj preferito?”. Domanda da un miliardo di dollari, a cui si fatica sempre a rispondere. Perché il dj preferito cambia nel tempo, a seconda dell’inventiva, dell’originalità, della forma del dj stesso, del genere che ci colpisce di più in un certo periodo. Personalmente, però, se dovessi dire chi è il mio dj preferito in senso assoluto, quello che ritengo essere il migliore di tutti i tempi, avrei pochi dubbi: per me, è Laurent Garnier. Perché nessuno come lui riesce a sospendere il tempo e lo spazio nei suoi set, a creare un racconto e un percorso che spaziano tra stili, bpm, umori e generi diversi stando però così bene insieme da creare un flusso assolutamente naturale e allo stesso tempo magico. Inoltre, Garnier è uno che con i suoi album ha portato la musica elettronica a livelli davvero elevati, contaminandola con molto altro e riuscendo sempre a trovare una chiave originale e accattivante.
Francese, classe 1966, Garnier diventa un nome quando negli anni ’80 è resident dj dell’Haçienda di Manchester, club dove new wave, rock, elettronica e acid house danno vita a un clash unico. Negli anni ’90 fonda la F-Communication, etichetta importantissima; negli stessi anni diventa una delle prime superstar dj mondiali, proprio grazie al suo stile contaminato e ad alcune tracce-simbolo di un’era. Si butta poi verso commistioni jazz insieme al musicista norvegese Bugge Wesseltoft. E la sua carriera è ricca di serate storiche e di palchi importanti, nei club e nei festival di tutto il pianeta.

Laurent Garnier arriva nuovamente in Italia, dopo la serata milanese di luglio, per il Lattexplus Festival, alla Q1 Arena di Firenze, domenica 8 settembre. Evento di cui vi abbiamo già parlato. Intanto, abbiamo parlato anche con Garnier. A lungo. Per una di quelle interviste da cui prendere appunti. Mettetevi comodi.

 

 

Voglio iniziare questa intervista dal tuo ultimo lavoro: ‘Feelin’ Good’, traccia prodotta insieme a Chambray, uscita in primavera e diventata una vera hit nei club e nei festival di tutto il mondo. Un brano che riporta alle origini del suono piano house di fine anni ’80 e inizio ’90. Che cosa mi dici di ‘Feelin’ Good’?
È stato tutto molto semplice. Addirittura io e Chambray non ci siamo mai visti in studio, mi ha semplicemente mandato alcune idee sul pezzo, io le ho portate avanti, ci siamo scambiati dettagli e aggiustamenti finché non era finito. Non mi aspettavo il successo che ha avuto, sinceramente. E soprattutto, non c’era nessuna volontà di “tornare alle origini della piano house” o cose del genere. È stato un processo molto naturale, quasi un divertissement. Sono davvero io il primo a stupirmi di quanto abbia girato ‘Feelin’ Good’ in questi mesi. In passato mi è capitato di avere delle idee forti, quando ho finito tracce come ‘Crispy Bacon’ o ‘The Man With The Red Face’ sentivo di aver fatto qualcosa con un grande potenziale. Lo percepisci, quando succede. C’è una forza nella creazione artistica che arriva in modo chiaro. In questo caso proprio non l’ho avvertita, forse mi sono sbagliato io, sottovalutavo il pezzo. E dirò di più: faccio fatica a suonarlo, perché non trovo mai il momento giusto, l’illuminazione che durante un set mi fa dire “ora la suono!”. Detto questo, naturalmente sono molto contento che ‘Feelin’ Good’ sia andata così bene, ed è un brano che mi piace.

Io invece ho pensato che fosse proprio forte dalla prima volta che l’ho ascoltata. Certo, non è rivoluzionario come certi tuoi pezzi storici, tuttavia ha qualcosa che la fa emergere in mezzo a molte produzione anche simili.
Sì, questo è vero, lo dico perché è lo stesso ragionamento che faccio io. Ci sono tante tracce che hanno il classico giro di piano, gli stab, e vedo che tantissimi dj scelgono di suonare proprio ‘Feelin’ Good’ e il pubblico entusiasta. Qualcosa avremo azzeccato!

Parliamo invece di ‘What’s Next’: è il tuo radio show e ci trovo tutte le influenze che negli anni sono andate a comporre la tua sfaccettata identità musicale: jazz, funk, house, techno, elettronica di varia estrazione. Mi pare che lì tu dia sfogo alle tue passioni di ascoltatore, sbaglio?
Da quando ho iniziato ‘What’s Next’ ho sempre voluto essere eclettico, non voglio fare un dj show ma un radio show. Era così con ‘It Is What It Is’, il mio programma precedente, ed è ancora così. Qui sono al 100% ciò che sono come ascoltatore, mentre nei dj set non sono così aperto, per forza di cose. Voglio dire, cerco sempre di suonare eclettico, di inserire qualcosa di inaspettato e sorprendente, ma ho davanti a me delle persone che vogliono ballare e quella è la prima regola da rispettare, perciò il percorso esclude alcune scelte che non sarebbero adeguate in quel contesto. Invece in radio posso spaziare anche in territori assolutamente lontani dalla musica da ballo. Odio ripetermi, suonare gli stessi dischi, e questa è la mia vita radiofonica, è diversa dalla mia vita da dj.

 

La radio ha un potere incredibile, dovrebbe essere molto meno soggetta a strategie che ne omologano scelte musicali e artistiche. Quando ero un ragazzino, la radio era per me una fonte inesauribile di scoperte, molti programmi di riferimento erano dei pozzi della conoscenza. Oggi la vedo spesso accartocciata su se stessa, apprezzo molto quando ritrovo lo spirito della condivisione.
La radio!!! La radio è qui proprio per questo, per questo spirito di comunità. Mi ci rivedo completamente in quello che hai detto, da ragazzo anch’io ho scoperto innumerevoli dischi e artisti che sono diventati per me fondamentali proprio grazie alla radio. Anche perché non potevo andare nei club o frequentare luoghi in cui c’era la possibilità di ascoltare le novità e farsi una cultura, ero ancora troppo giovane, e così la radio è stata una fonte di costanti novità, scoperte, connessioni che hanno formato il mio gusto.

In fondo la chiave di un bravo dj radiofonico è quella di dire “hey! ho trovato questo pezzo che mi fa impazzire, sentite qua! voglio condividerlo con voi”, no?
Proprio così! È comunione, condivisione. Infatti in ‘What’s Next’ voglio proprio pormi in questo modo. Mi diverto e cerco di passare a chi mi ascolta ciò che mi piace e mi diverte. Con eclettismo e senza barriere.

Eclettismo. Sei sempre stato eclettico: mescolavi molti stili negli anni ’80 al mitico The Haçienda; sei un dj di valore assoluto in ambito techno; nei tuoi dischi hai sconfinato spesso e volentieri in esperimenti jazz. Essere eclettici in passato era un problema? O era più semplice di oggi?
Beh… 20/25 anni fa era più difficile imporre il proprio eclettismo, ad esempio suonare il pezzo disco nel set techno. Non che la gente fosse chiusa mentalmente, ma techno e house stavano ancora scrivendo la loro storia, erano musiche di rottura e perciò chi sceglieva di frequentare serate house o techno lo faceva con un preciso intento sociale, non era solo evasione ma ricerca di identità. Mio figlio oggi è un adolescente e ascolta musica molto bella senza stare a porsi troppi problemi di genere. Guardavo lui e i suoi amici, le sue amiche, qui a casa, durante una festa: era curioso vedere questi teenager che ascoltano trap e poi passano alla techno e poi senti che mettono Cindy Lauper, poi Sting e magari dei cantanti francesi. Non era possibile ai miei tempi! C’era una divisione quasi religiosa, la musica che ascoltavi era una sorta di appartenenza, i codici erano molto più rigidi.

Sì, ancora negli anni ’90, quando ero ragazzo io, c’era questa specie di divisione in tribù. I rockettari, i punk, i b-boys, gli amanti della techno…
Esatto. Piano piano le barriere sono cadute, il mondo oggi è molto più fluido in tutti i suoi aspetti, e anche nell’approccio alla musica. È un bene. Infatti, tornando al discorso dell’eclettismo, oggi abbiamo raggiunto una maggiore coscienza rispetto a cosa sono techno e house, alle loro origini, e suonare una traccia disco anni ’70 in mezzo a un set techno non solo non è un problema, ma è un momento di grande auto-celebrazione.

Mi vengono in mente infatti tuoi momenti in cui “sganci” il classicone al Sónar, o Carl Cox che suona che so, Donna Summer, Angie Stone, o addirittura ‘Love Is In The Air’ di John Paul Young.
Sì, è così, è un filo conduttore che permette a noi di suonare certe canzoni e al pubblico di recepirle nel modo giusto, nell’ottica di qualcosa che unisce le radici ai fiori di questa cultura, capisci?

 

Com’era essere un dj negli anni ’80, negli anni ’90? Molto diverso da oggi, tecnologia a parte?
Non è cambiato molto per me, è sempre stata una questione di scambio e di feeling. Poi cambiano i club, alcune dinamiche, ad esempio un sacco di giovani dj non suonano a lungo oggi, la tendenza è quella di set brevi, una o due ore. Poi c’è un’evoluzione del rapporto con il pubblico, come ti dicevo… ma per me le differenze non sono poi così grandi. Io vado in consolle per divertirmi e per far divertire le persone, per me essere un dj è condivisione ed è portare tutti lontano, costruire un viaggio che duri per il tempo del mio set.

Ho menzionato il Sónar poco fa. Ho visto sul tuo profilo Instagram una bella foto di te insieme a John Aquaviva, Richie Hawtin e Jeff Mills, proprio a un Sónar di parecchi anni fa. Che rapporto hai con il festival catalano?
Un rapporto speciale. Sono miei cari amici, ho una forte relazione con loro e con tutti i festival con cui mi sento nello stesso spirito: Time Warp, Nuit Sonores…

Domanda secca: festival o club?
Club! Sempre. I festival sono divertenti e in alcuni casi davvero emozionanti, ma i club sono il mio posto. Per tante ragioni. Ho iniziato la mia carriera nei club e prima ancora frequentavo i club, per me hanno il fascino del luogo dove tutto è magico. Poi, posso suonare più a lungo e fare un lungo viaggio attraverso la musica, ed è ciò che amo di più. Riuscire a condurre il dancefloor verso destinazioni sconosciute. Non voglio sembrare folle o retorico, ma un altro fattore mi fa preferire i club ai festival, e sai qual è?

Qual è?
Il tetto. In un club siamo tra quattro mura e c’è un tetto sopra di noi, siamo dentro questo posto, e – scusa se sembro un po’ matto – sono convinto che questo permetta all’energia che si crea tra dj e pubblico di non disperdersi, di restare in circolo. Siamo dentro il club, siamo abbracciati dal locale, e quando la magia accade, il tempo si dilata, perde di significato. Nei festival non succede quasi mai, l’energia vola via, e poi i set durano spesso troppo poco perché si crei quella condizione di sospensione che è la cosa davvero fantastica del viaggio di un dj e della gente che balla e si fonde in una cosa, un’entità sola.  

Però sembra che le giovani generazioni preferiscano i festival ai club: più scelta, più instagrammabilità, più socialità (in tutti i sensi), al confronto il club mi pare che soffra della dinamica che la sua natura gli impone, con le sue dimensioni ridotte, l’attenzione che richiede la musica, i pochi dj in scena.
Li capisco, i giovani, perché sono di un’altra generazione. La prima house generation è nata e cresciuta nei club, era il loro territorio naturale. Poi è arrivata la rave generation e gli spazi si sono allargati, per molti aspetti fu un periodo che si può paragonare a quello attuale dei festival, dei grandi spazi, degli eventi all’aperto. Più tardi, se ricordi, siamo tornati all’intimità dei club, anche molto piccoli, una dimensione che permetteva un approccio diverso, vicino alle origini. E ancora, eccoci qui a parlare di ventenni che vanno ai festival e non amano i club. Sono cicli, sono fenomeni generazionali. Vedrai che presto si tornerà ad apprezzare nuovamente i club, magari arriverà la noia verso i social e lo status symbol sarà andare in luoghi poco adatti a foto e video.

 

A proposito di social, dando uno sguardo al tuo Instagram vedo molte foto di te con gli amici, con la famiglia, non è il classico profilo incentrato su foto “leccate” ad arte o sponsorizzazioni varie. Perché?
Social! Cosa significa questa parola? Socialità. E allora siamo sociali! Per me tenere un profilo di soli ritratti miei non ha senso, anzi odio tutti questi profili di persone, anche artisti, che postano solo foto di sè. Alla ventesima foto sono stufo, annoiano. E poi, sono pur sempre un dj, e la techno era e dovrebbe essere qualcosa che riguarda la musica. Faceless techno, si diceva per un periodo. Techno senza volto, quando il dj faceva di tutto per mantenere un profilo basso, poco riconoscibile, perché la filosofia era che non importava chi stesse suonando ma quale pezzo, quale musica stesse suonando.

Oggi si va nella direzione opposta, per tante ragioni.
Sì, beh, io non ho proprio voglia di seguire quella direzione. Mi piace mostrare i lati di me che ho piacere di mostrare, quindi anche momenti conviviali, famigliari, sto anche attento a cosa non mostrare, naturalmente. L’intimità è un bene prezioso e oggi più che mai va preservato, quindi famiglia e amici ok, ma con discrezione.

Ultima domanda: recentemente suoni molto spesso in Italia, domenica sarai di nuovo nel nostro Paese, a Firenze, per Lattexplus. Onestamente: qual è il tuo rapporto con l’Italia?
Onestamente, era un Paese davvero difficile dove suonare per me fino a 10-15 anni fa. C’erano un paio di posti dove stavo bene ma per il resto era arduo, c’è sempre stata una vibe strana.

Perché, secondo te?
Ah, bella domanda! Sai, da piccolo venivo in vacanza in Italia, vicino a Rimini, e in questi grandi club, davvero eleganti per l’epoca, come la Baia Degli Angeli, il Club dei 99, vedevo ragazzi e ragazze andare a ballare in ghingheri, vestiti bene, e ripensandoci credo che una delle ragioni sia proprio questo background, questa abitudine a concepire il club, il locale dove si va a ballare, come un luogo dove si resta formali, non come il posto dove ci si lascia andare in modo liberatorio. In Francia, e in molti Paesi d’Europa, i club sono nati grazie alle comunità gay, erano il loro territorio di libertà e questo ha portato con sè un’inevitabile tendenza a considerare il club come luogo dell’emancipazione, della libertà. Forse questa differenza ha fatto la differenza, se mi passi il gioco di parole. 

In effetti, tolti pochi focolai in qualche grande città, in Italia il clubbing non è nato insieme alla scena gay come in altri Paesi, è stato più la modernizzazione del concetto di festa inteso come momento in cui ci si mette l’abito buono e si sta insieme. Ancora una decina d’anni fa la selezione all’ingresso richiedeva spesso giacca e scarpe eleganti. Ma perché è cambiato il vento in Italia negli ultimi anni?
Negli ultimi 10 anni è cambiato perché la gente viaggia di più e si confronta con il resto d’Europa e del mondo, credo. Si viaggia tanto e si viaggia anche per turismo musicale, si va in giro per club in tutto il mondo e questo porta ad accorciare le distanze e ad assimilare le abitudini, ad aere gusti più aperti. Non lo so, è un’ipotesi. Di sicuro, quando vengo a suonare  in Italia negli ultimi anni sono molto più a mio agio.

 

 

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Albi Scotti
Giornalista di DJ Mag Italia e responsabile dei contenuti web della rivista. DJ. Speaker e autore radiofonico.

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