• SABATO 03 GIUGNO 2023
Interviste

Lefto: da Nelson Mandela al dancefloor

Un percorso lungo quello di Lefto, dj e tastemaker apparso nelle più disparate situazioni in giro per il mondo

La carriera di Lefto ha inizio ufficialmente a metà degli anni ‘90. Stephane Lallemand, belga con un cuore cosmopolita, si approccia a questo mondo grazie al suo lavoro a Music Mania, storico record store di Bruxelles. Lo shop, inaugurato nel lontano 1969 è dapprima una vetrina per i migliori dischi di rock internazionale e, molti anni dopo, anche grazie al lavoro di Lefto, diviene un punto di riferimento tout court anche per la florida scena hip hop belga. Da lì il passo verso la realtà radiofonica di Studio Brussel è breve e Lefto si ritrova improvvisamente a selezionare musica come radio host per una audience di oltre un milione di ascoltatori.

L’impatto è notevole sia per lui che per il pubblico e l’accesso privilegiato a musica fresca proveniente da oltreoceano catapulta in poco tempo Lefto dietro alcune delle più importanti consolle al mondo. Se oggi questo artista viene considerato una sorta di benchmark nel mondo dei tastemaker e dei selector è anche grazie al suo stile inconfondibile che miscela le più disparate influenze in set organici, dalla cumbia all’hip hop, dalla house alla techno, dalla dub al soul. Lefto si fa alfiere di uno stile globale e privo di barriere per definizione ed in questa intervista scopriamo cosa si cela dietro il suo talento e la sua indubbia intelligenza musicale.

 

Nella prima fase della tua carriera è già evidente una sorta di ossessione per la musica e per la conoscenza di essa. Dal record digging al tuo lavoro a Music Mania, quali sono i tuoi ricordi di questo innamoramento?
È stato un periodo magico con uno sviluppo molto lungo. Ho avuto la fortuna di lavorare in uno dei record store più importanti d’Europa, di portare al suo interno le mie influenze e di assistere alla nascita e alla crescita di nuovi generi non solo in Belgio, ma in tutto il mondo. Quello è stato il trampolino di lancio per arrivare a Studio Brussel, probabilmente la radio più importante a livello nazionale. Successivamente ci sono state le prime compilation realizzate per Blue Note, come ‘Out Of The Blue’, una serie di remix per Madlib, o i primi lavori per Gilles Peterson. Molti mi conoscevano per il mio lavoro in radio e con il tempo hanno iniziato ad apprezzarmi anche come dj. Un altro punto di svolta fu iniziare a suonare regolarmente in America assieme a Madlib, Dj Spinna, Kenny Dope ed A-Trak facendomi conoscere anche in quel mercato. Con alcuni di questi artisti ho mantenuto un ottimo rapporto, per esempio quando suono a Los Angeles Madlib viene sempre a trovarmi ed aver ottenuto il suo rispetto è per me un grande onore.

Un altro momento cardine è quello del tuo incontro con Gilles Peterson. Come sono andate le cose in quell’occasione?
Anche in quel caso è stato tutto molto naturale. Gilles venne ad un party dove stavo suonando e pochi giorni dopo mi contattò per invitarmi a suonare al suo festival. Da lì iniziamo a parlare di musica a ruota libera e mi ritrovai a lavorare con lui per BBC Radio e successivamente per Worldwide FM. Gilles voleva che fossi uno dei suoi A&R e io iniziai a passargli tutto quello che ritenevo fosse interessante. Se c’è una cosa di cui sono sicuro è che all’epoca cercai di spingere al massimo la scena in Belgio e di supportare tutti gli amici che mi ero fatto all’estero. Un periodo intenso, faticoso ma molto appagante.

Pensi di aver fatto tutti i passi giusti all’epoca?
Credo di sì, anche se poche persone sanno quanto mi sono impegnato e cosa ho ottenuto nella mia carriera, soprattutto in UK. Forse perché non mi sono mai curato troppo delle pubbliche relazioni o di sbandierare apertamente i miei risultati. Ci sono tante cose che ho fatto e che sono accadute nella mia carriera ma se tu non me le chiedi probabilmente non le saprai mai.

 

A questo punto è lecito e doveroso chiederti quale sia il tuo rapporto con la promozione di te stesso.
Non mi sono mai sentito nella posizione di doverlo fare. Ho sempre avuto una concezione old school dove non è visto bene il fatto di mettere in risalto i propri successi. Le nuove generazioni invece hanno un approccio diverso, non gliene frega un c***o e passano il tempo ad incensarsi ed idolatrarsi come se fossero davanti a uno specchio. Il mio rapporto con la musica è diverso, lavoro sodo, faccio quello che ritengo giusto e poi se qualcuno viene a saperlo e mi rispetta per questo tanto di guadagnato. Quando mi trovo con persone che parlano solo di sé stesse penso sempre: “Hey amico, rilassati!”. Sono più di 25 anni che lavoro in questo mondo e credo che questo tipo di discorsi debbano farli i promoter o i PR, non gli artisti. A pensarci bene credo sia anche un discorso di nazionalità e tu da italiano probabilmente puoi capirlo bene. Gli americani e gli inglesi hanno un’alta considerazione di artisti americani ed inglesi e tendono a sottovalutare tutto il resto. È come se ci fosse una sorta di protezionismo inconscio e quando vieni presentato come un dj molto bravo, ma belga, il pubblico rimane interdetto.

Quotidianamente ti occupi di molte cose diverse: lavori in radio, sei in tour come dj, lavori come A&R per diverse label, vai in studio per lavorare a remix o compilation, come fai a mantenere questo passo e sostenere una schedule così pressante?
Mi rendo conto che sono tanti impegni a cui si sommano le consulenze che faccio per diversi festival, i mix che registro settimanalmente, la selezione dei promo di cui poi discuto con Gilles. Sicuramente non ho tempo per annoiarmi ma da qualche anno ho dovuto prendere un manager che si occupasse della parte più organizzativa del mio lavoro. Per molto tempo mi sono gestito in totale autonomia ma adesso mi rendo conto che non è più possibile. Per esempio adesso ho tre compilation in uscita ed è molto importante assicurarsi che non escano tutte in contemporanea. Avere una figura che si occupi solo di queste situazioni mi smarca da una serie di impegni e pensieri che sono impensabili se ci si vuole dedicare con attenzione a tutto il resto.

Ho avuto il piacere di assistere a diversi dei tuoi dj set da quelli dei Worldwide Awards a Londra, a quelli in Italia fino ai grandi festival come Dimensions in Croazia. Ogni volta mi sono trovato ad assistere ad una selezione completamente diversa, capace di attraversare traiettorie anche molto distanti tra loro. Questo è un tratto distintivo importante in un contesto storico dove i dj solitamente si focalizzano su pochi generi. Come hai allenato questa capacità e come riesci a trovare incastri sensati dove invece altri vedrebbero un grosso rischio?
È molto difficile descrivere come ho sviluppato questa capacità. Sin dagli inizi della mia carriera ho sempre avvertito degli elementi in comune tra generi differenti che potevano rappresentare un collegamento, un ponte per muoversi tra sonorità molto varie. I ritmi della cumbia o della salsa per esempio si incastrano bene con molte sonorità house e la musica brasiliana ha dei collegamenti molto interessanti con l’hip hop. Questa è sempre stata la mia più grande forza e allo stesso tempo la mia più grande debolezza perché una larga parte di pubblico ha bisogno di riferimenti precisi, soprattutto per chi viene da un retaggio tipicamente dance. Molti colleghi però mi dicono sempre di continuare per la mia strada perché questo modus operandi è ciò che mi rende differente. Ci sono altri dj che variano molto nel corso dei loro dj set ma a differenza mia mixano in modo diverso, o molte volte non mixano affatto.

 

Questo è un punto interessante e molto vero. Diversi dj variano attraverso diversi stili e sonorità, privilegiando l’aspetto della selezione a scapito della tecnica o della coerenza del flusso che è rappresentato dal dj set. Dal lato tecnico come si arriva a questo risultato?
Per prima cosa è fondamentale conoscere molto bene il brano che si sta suonando, i suoi break e drop, oltre ai momenti in cui si può intervenire con un loop. Credo che ogni genere ti permetta di creare proprio dei loop che ti facilitino in queste transizioni. Mi preparo spesso dei punti di cue per entrare in battuta quando uso i CDJ e con questi posso davvero sbizzarrirmi come preferisco. D’altro canto cerco di far sembrare tutto molto scorrevole senza concentrarmi troppo sul virtuosismo che la maggior parte delle volte è semplicemente fine a sé stesso.

Cambiando brutalmente argomento, durante questo particolare periodo storico hai notato un cambiamento nelle abitudini del pubblico che segue i tuoi radio show?
Sì, me ne sono reso conto anche solo guardando la chat che interviene durante i miei dj set o durante le mie selection. Per prima cosa gli spettatori sono aumentati drasticamente così come sono aumentate le interazioni. Le persone avevano e hanno più voglia di parlare della loro passione, dei dischi che propongo e di confrontarsi con altri appassionati. Ci sono state molte discussioni simili a quelle che potresti avere in un club durante una serata, mentre scambi un parere con qualche amico sul dj che sta suonando. Essendo una radio che ha uno spazio esterno è anche capitato che molte persone si radunassero semplicemente stando lì fuori, in piedi e guardandomi mentre facevo il mio lavoro. Questo ha attirato l’attenzione delle forze dell’ordine che in diverse occasioni sono arrivate intimandoci di smettere di fare il nostro lavoro. Le persone presenti e quelle a casa hanno potuto assistere in diretta a queste situazioni e al nervosismo generale perché descrivevo loro cosa stava accadendo.

 

La reazione del pubblico in queste circostanze è stata di rabbia o di delusione?
Un po’ di entrambe perché era chiaro a tutti che si stavano reprimendo le persone sbagliate. Credo che durante il periodo più duro della pandemia noi abbiamo aiutato le persone a passare il tempo, a distrarsi con la musica e con le chiacchiere della community. Se poi qualcuno stava all’esterno della radio, distanziato, senza creare assembramenti, non capisco quale fosse il problema onestamente. Ci sono stati anche dei momenti di tensione dove la polizia mi ha intimato di smettere di rispondere a tono perché secondo loro ero stato troppo arrogante. In realtà stavo solo difendendo il diritto di fare il mio lavoro che non danneggia nessuno, anzi, in quel caso specifico era una valida alternativa all’assenza di socialità obbligata dalla circostanze. Ma alla fine credo che alcune autorità vogliano solo avere l’ultima parola in ogni discussione e questo non solo in Belgio ma in tutto il mondo.

Tra l’altro hai vissuto il periodo della pandemia in un momento di transizione in cui stavi passando da una grande radio convenzionale al mondo delle webradio in streaming. Come hai vissuto questo cambiamento?
Sono passato da una realtà in cui avevo abitualmente più di un milione di ascoltatori ad una realtà più intima e mi sono reso conto subito che la capacità di creare una community, un network, è molto più forte attraverso la rete. Inoltre dove ero prima ogni mia proposta doveva essere vagliata da almeno cinque persone diverse e questo rendeva frustranti anche le più piccole richieste. Bastava che una di queste persone bocciasse la mia idea per far sì che non si portasse avanti nessun progetto. Meccanismi molto politici e poco funzionali sotto l’aspetto della qualità. Avevo la percezione di essere in un luogo in cui le persone si sentivano importanti solo ed esclusivamente perché lavoravano nella grande radio, senza fare nulla di concreto per la comunità e la cultura che ruota attorno alla musica. Si sentivano cool ma non lo erano e onestamente credo che non sappiano nemmeno adesso cosa ci sia di cool nella musica contemporanea. Parliamo di personaggi che non vivono nemmeno nella città in cui lavorano, che non respirano un contesto multiculturale e metropolitano, che se ne stanno nella loro bolla a lavoro per poi tornarsene nella loro casetta in campagna e il giorno dopo prendere la macchina e tornare nella loro “radio cool”. Come fai a raccontare certe cose se non le vivi, a trasmetterle con la musica se non ci sei dentro? Lavori per una radio che ha nel suo nome la parola Bruxelles e poi non sai nemmeno come è davvero la vita a Bruxelles.

 

“Parliamo di personaggi che non vivono nemmeno nella città in cui lavorano, che non respirano un contesto multiculturale e metropolitano, che se ne stanno nella loro bolla a lavoro per poi tornarsene nella loro casetta in campagna e il giorno dopo prendere la macchina e tornare nella loro “radio cool”. Come fai a raccontare certe cose se non le vivi, a trasmetterle con la musica se non ci sei dentro?”

 

Ai miei occhi sembra un paradosso bello e buono…
E ti garantisco che lo è. Vivere per essere cool in una radio di una città che non vivi, suonare black music e non avere nessun appartenente alla comunità black che lavora in quelli uffici e studi (ride n.d.r). Questo è un altro dei motivi per cui me ne sono andato e l’ho detto molto chiaramente. Quelle persone non facevano nulla per sensibilizzare le nuove generazioni attorno al tema Black Lives Matter, ma si limitavano a mettere la musica cool che è semplicemente un’eredità di determinate popolazioni. Poi però quando parlavi in ufficio di certi argomenti ti rispondevano che quel movimento è solo un movimento di vandali dediti alla distruzione. Se ragioni così secondo me semplicemente non hai afferrato il concetto. Nella storia dell’uomo ci sono poche rivoluzioni che hanno avuto effetti positivi senza che ci fossero schermaglie o momenti di scontro. Forse Nelson Mandela è stato l’unico capace di ottenere grandi risultati in maniera pacifica ponendo di fatto fine all’apartheid. Se sei amichevole e tranquillo è molto difficile che qualcuno ti ascolti davvero e le cose non cambieranno mai, soprattutto in contesti come quello americano. Sia chiaro, io non sono a favore della violenza, del vandalismo e della distruzione dei beni pubblici, mi limito solo a constatare che certi atteggiamenti nella storia non hanno funzionato, mentre altri sono stati più efficaci.

È stata davvero una lunga chiacchierata in cui abbiamo parlato della tua carriera, della radio, della musica, della pandemia e di attualità. Chiuderei sfruttando la tua grande esperienza per chiederti quali sono gli artisti che in questo momento stai seguendo con maggiore interesse, quelli che ti sentiresti di consigliarci senza pensarci due volte.
Ce ne sono davvero tanti, così come ci sono molte nuove influenze che stanno emergendo. Penso in particolare al Sud Africa che in questo momento è un paese molto prolifico da questo punto di vista. Ci sono tantissime jazz band anche in Belgio che stanno alzando l’asticella e che ascolto davvero volentieri. Sicuramente è una conseguenza del rinascimento jazz che c’è stato qualche anno fa in America, passando per l’Inghilterra ed infine contaminando il resto del mondo. C’è tanto jazz anche nel resto della musica che circonda, basti pensare ad Henrik Schwarz che sta introducendo le nuove generazioni a questo sound attraverso un’elettronica molto contaminata, o Leon Vynehall con l’ottimo album su Ninja Tune, o Tyler, The Creator che è arrivato primo nella Billboard top 100 con un album davvero tosto e sporco, ricco di sample jazz. Ma è così anche nella techno. Questa mattina stavo presentando assieme a Gilles Peterson il nuovo disco di Robert Hood ed il campione è un grande classico di Aretha Franklin. In questo momento il vero protagonista è il jazz e chi non lo capisce se ne renderà conto, molto presto.

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