“Non farmi parlare solo di Ibiza e delle cose vecchie, dai. Sai che parlo volentieri di tutto ma concentriamoci sulle novità”. Stiamo chiacchierando già da un po’ davanti alla collezione di dischi di Lele Sacchi quando decidiamo che è ora di accendere il registratore. E l’intervista parte in medias res. Le interviste sono una parte del mio lavoro che amo. Anche se non è sempre possibile condurle come vorrei, per tante ragioni. La più banale: a volte mi trovo di fronte persone con cui non sono sulla stessa lunghezza d’onda, che non vuol dire d’accordo con la mia visione delle cose, ma semplicemente insieme alle quali non si accende quella scintilla che infiamma il discorso e il confronto. Oppure mi scontro con la scarsa voglia e concentrazione di chi intervisto. Con Lele Sacchi invece si potrebbe chiacchierare per giorni interi con grande piacere. Lele è un dj che ha fatto la storia del clubbing, partendo da Milano e arrivando poi in tutta Italia e in giro per il mondo. Tanto è riservato e discreto nei modi, quasi schivo se non lo si conosce, tanto si dimostra appassionato ed espansivo quando si parla di musica. Di house, di techno, di come sono cambiati i club a Milano, di drum’n’bass, di New York e di sub-culture musicali e non. Sarà anche per questo che la sua nuova serata si chiama Iconic e vuole restituire allo spettatore il piacere di scoprire non soltanto la musica ma tutto ciò che sta intorno alla musica. Un concept mensile che oltre ai dj set include film, mostre e ospiti che porteranno la musica che li lega proprio al tema mensile di Iconic. Ma di questo, e di molto altro, è proprio Lele Sacchi a parlarci.

Si parlava di Ibiza e di un’epoca gloriosa del clubbing. Forse tessiamo le lodi del passato perché non c’è in giro molta musica fortemente innovativa, c’è una trasformazione che si sta compiendo…
Stiamo ritornando al passato ma con i dj superstar, che fino a dieci anni fa non esistevano. O meglio, esisteva la figura del guest dj, pagato profumatamente e idolatrato, ma la dimensione non era così globale, era nazionale o regionale. Altre cifre, anche se questo non è un problema esclusivo della dj culture. Se fai questa cosa per la musica, perchè sei un fanatico appassionato, una volta che sei riuscito a farne una carriera, magari facendo anche un po’ di soldi, per carità, che bisogno hai di strozzare il mercato per diventare miliardario? Soprattutto se vieni da un background in cui questa cosa la facevi per amore, per passione. Eppure siamo in un periodo così, dove esiste questa realtà, non solo per volontà degli artisti ma anche dei manager, degli agenti, dei grandi gruppi che organizzano i festival e ovviamente hanno bisogno delle superstar per vendere più biglietti. Solo che si è spinta troppo in là questa mentalità. Non basta più che un dj sia considerato bravo, di valore; deve avere un’immagine da jet privato. Si sta compiendo una trasformazione che non è così positiva, ne pagheremo le conseguenze. Non è il pianto di chi dice che vent’anni fa era tutto meglio, non è così. C’erano tante cose sbagliate che sono andate migliorando, ma quello che si sta delineando è un sistema che rischia di scoppiare lasciando tutti a terra.
Non è un caso che molti club si lamentano perchè diventa impossibile chiamare certi artisti: i cachet sono altissimi ed esigono una produzione da tour. Quindi o sei un superclub di quelli con i ledwall o rischi di non farcela, è vero?
Succede perchè non c’è più il rispetto per una parola che sta scomparendo ed è “underground”. Che ha un significato molto lato, molto vago, io studio ancora tanto la storia delle sottoculture, e “underground” ha avuto significati diversissimi dagli anni ’50 ad oggi, in molti contesti e situazioni differenti. Diciamo che è un ecosistema autosufficiente di una scena, in cui il promoter, il dj, il PR, il locale guadagnano tutti abbastanza per fare in modo che la situazione stia in piedi rispettando alcune linee condivise dagli attori coinvolti. Un’etica che mantiene tutti rimanendo all’interno di certi paletti di qualità. Un’etica che implicitamente esisteva negli ambienti house e techno. Oggi invece vedo un distacco tra gli artisti, le agenzie e il pubblico. Ci sono artisti che grazie, o a causa, del web, sono esplosi molto velocemente, e quindi non hanno mai conosciuto a fondo quel sistema fatto di promoter che fanno circolare e spingono a fondo un progetto che è sì legato al business ma è soprattutto motivato da una spinta culturale, dalla passione. Arrivano di colpo come mezze star con l’idea che non esistano rapporti coltivati a lungo. E io temo che alla lunga in questo modo i soldi si drenino in fretta, e non ci sia margine per guadagnarci tutti. In Italia poi mancano anche le grandi strutture che all’estero hanno forse strangolato il mercato rispetto ai più piccoli, ma perlomeno ci sono. Qui purtroppo non esistono. Ci sono realtà importanti come Movement, Club TO Club, Home, sono progetti imprenditoriali cresciuti con una certa etica perché sono il frutto del lavoro di gruppi ristretti di persone, che attraverso un lungo processo sono riusciti a crescere. Non abbiamo però i mille festival che ci sono ad esempio in Olanda, con i fondi di investimento alle spalle. Questo voglio dire. La nostra situazione è in un guado perchè quelli che per noi sono festival “grandi” in realtà danno lavoro a tante persone ma non a così tante da sostenere da soli il settore, e dall’altro i piccoli e medi club faticano. Io credo che dall’altra parte il rischio che la bolla esploda è concreto anche in Olanda, Inghilterra o Stati Uniti, perchè se i fondi di investimento finanziano e rischiano delle perdite di cifre anche importanti, è chiaro che arriva un punto oltre il quale non vogliono più rischiare o semplicemente trovano un business più redditizio e a quel punto salta il tavolo. Gli investimenti nell’entertainment sono rischiosi ma i margini di guadagno sono alti; però il gioco deve valere la candela.
In tutto questo discorso, percepisco che siano proprio le scene underground, quelle rivoluzionarie, a mancare. House e techno potevano essere underground vent’anni fa ma ormai sono diventate non dico mainstream, ma certamente realtà consolidate nei numeri e nella testa di diverse generazioni.
Io non sono così convinto che i numeri siano cambiati poi tanto. La maggior parte dei festival conta circa 30-40mila presenze, a parte quei pochi giganti come Tomorrowland. Se ci pensi non sono numeri così lontani dai rave svizzeri o tedeschi o dai festival inglesi degli anni ’90. I numeri sono sempre stati alti, è cambiato il fatto che chi aveva vent’anni allora, e già considerava Carl Cox una star, oggi non fa fatica a immaginare questo tipo di musica e la sua cultura dentro un sistema mainstream. Si sono rotti questi argini. Lo vivo sulla mia pelle: faccio il dj professionista dal ’95, sono finito a fare televisione, lavoro regolarmente in radio. Tempo fa non sarebbe stato possibile. Il suono poi è figlio dei tempi: viviamo in un’epoca in cui i bambini a cinque anni tengono in mano uno schermo digitale. La musica che assomiglia al digitale è la colonna sonora adeguata alle loro vite, un Fender Rhodes o una chitarra elettrica a loro possono sembrare addirittura vintage. Suonano vecchi. L’elettronica, se ci pensi, ha sempre funzionato bene al cinema, negli spot, anche quando il prodotto non è in target, perchè parla lo stesso linguaggio. Quindi non direi che sono aumentati molto i numeri, piuttosto si sono aperte nuove finestre, nuovi mercati.
A proposito di mercati, come vedi questi nuove porzioni di mondo che sempre pià spesso vediamo spinte come nuove frontiere del clubbing – soprattutto da chi organizza festival e investe appunto nei superclub?
Stiamo assistendo al tentativo di aprire canali in territori che non siano i classici Europa-Stati Uniti-Sud America. Qualcosa si sta muovendo lentamente, tutti si aspettavano uno sviluppo diverso ma le cose non sono esplose così rapidamente: in India non c’è quasi niente, in Cina c’è poco rispetto al potenziale e alle dimensioni, in Indonesia non c’è molto… però il mercato si sta allargando, vedremo cosa succederà. Io non sono così sicuro che i numeri saranno molto maggiori rispetto a oggi. Ci sono più festival ma meno club, in Inghilterra le serate da 5-6mila persone non ci sono quasi più.
E tu, che sei un dj ma anche uno che le serate le ha sempre pensate, configurate e organizzate, come vivi questo cambiamento?
Lo vivo come un momento in cui rimettere in asse l’idea di serata. Iconic, la mia nuova clubnight, nasce proprio da questo ragionamento.
Mi racconti che cosa sarà Iconic?
Iconic prende il nome da una label che nascerà presto, e sarà dedicata alla ristampa di alcuni brani cult con nuovi edit di artisti attuali che stimo molto all’interno del nostro ambiente. Pensando al termine in sè, mi sono venute tante idee. Ho notato che c’è un grande ritorno di tutto ciò che è “classic” riguardo techno e house, si tratta di una cultura che ormai ha trent’anni ma ha sempre pensato in terminin di futuro, di avanguardia. Oggi non sento grandi brani in giro, non c’è qualcosa che ha il potenziale di diventare così iconico, non ci sono le hit. Con hit intendo ‘La La Land’ di Green Velvet, ‘To Be In Love’ dei Masters At Work o ‘Pleasure From The Bass’ di Tiga, per dire. Icone underground. Oggi paradossalmente le persone sono più pigre nonostante il web, anzi forse a causa del web. Noi apparteniamo a una generazione che il web l’ha visto nascere e lo vive come una figata, siamo passati dalle ricerche nei negozi di dischi alla scoperta dei cataloghi delle etichette e ci siamo ritagliati i nostri gusti partendo magari dalle segnalazioni sui giornali, per scoprire via via nuovi artisti o label e tracciare una nostra personale mappa. Chi è nato e cresciuto con il web già sviluppato si trova tutto pronto, manca un po’ quello spirito di ricerca. Allora Iconic vuole andare a recuperare questa mentalità di approfondimento. Per carità, stiamo parlando di una clubnight, il divertimento è sempre al centro di tutto.
Però?
Però, visto che sarà una serata mensile, di domenica, quindi al di fuori delle dinamiche da competizione del weekend a Milano, dove la concorrenza ti impone alcune scelte strategiche ben precise – necessarie, per carità – su booking e gestione del mercato, mi piace l’idea di riportare un po’ di cultura. Iconic sarà una serata dove ogni volta ci sarà un tema che verrà approfondito, sia grazie al dj set di un ospite che suonerà proprio legato a quel tema, sia con la proiezione di film e documentari e l’esposizione di mostre dedicate ogni volta al tema in questione. Partiamo il 1 ottobre con Curses e la New York del 1977, quindi CBGS e tutta la scena che animò quella incredibile rivoluzione musicale. E poi ci sarà il mio set che invece sarà più libero, da resident.
Mi spieghi qualche dettaglio in più?
Certo. Il club è l’Apollo, in via Borsi a Milano, uno spazio perfetto per questo progetto perché ha due sale, e mentre nella prima proietteremo a inizio serata film e documentari per poi aprire al dancefloor con il mio set di chiusura, nella seconda sala ci sarà appunto l’ospite che suonerà il set a tema. In più, visto che le serate saranno di domenica, inizieremo presto (ma finiremo comunque tardi) e ci sarà la possibilità di venire a cena.

Ci sarà sempre un tema per l’ospite?
Sempre. Ci tengo proprio all’idea di un dj che si cimenti con qualcosa di cui è appassionato e che abbia una connotazione ben precisa. Ad esempio i miei amici Soul Clap, che a Milano suonano spesso e sono delle star, avranno a che fare con il tema ‘Lagos 1975’, quindi Fela Kuti e compagnia bella. Sarà interessante. Il fatto che sia di domenica vuole essere un invito per chi ha voglia di divertirsi in maniera un po’ differente, in molti sono stufi di un certo tipo di routine e questa può essere l’occasione giusta per vivere il club in modo diverso. Mi piacerebbe vedere anche persone del nostro ambiente, è domenica e non siamo nel mezzo della concorrenza tra serate. Questo è il concetto di Iconic, su cui vorrei ricostruire un clubbing originale e in grado divertire facendo cultura, e magari un format che sia esportabile, perché no?
Stai già pensando a un tour?
No, è presto, però visto che Iconic abbraccia momenti importanti nella storia del clubbing mondiale, e visto il momento storico così globale, penso che sarebbe interessante portarlo in giro. In fondo si parla un linguaggio universale. E mi piace avere la consapevolezza di lavorare su un progetto che ha continuità con tutto ciò che ho sempre fatto. Con la mentalità di Elita, con ciò che faccio in radio, con la mia storia personale come dj.
Sei un dj che ormai suona dappertutto ma storicamente sei molto legato a Milano. Qui sei artisticamente nato e cresciuto. Quali sono i tre momenti iconici della tua vita come dj in questa città?
Bella domanda! Sicuramente i primi anni al Tunnel, nel 1995 quando facevo solo il dj, e poi quando insieme a Painé abbiamo iniziato la nostra serata drum’n’bass, trip hop e in generale “alternative”. I Magazzini Generali con Jetlag sono stati un altro passaggio importante, fondamentale, bellissimo. Gli anni 2003-2005 sono stati incredibili. C’era tutta un’elettronica nuova che stava rivoluzionando la scena, mischiavamo stili e linguaggi e c’era un pubblico eterogeneo fantastico. La moda, gli universitari, c’era proprio un mix giusto, perfetto. Il terzo momento importante è stato tra il 2009 e il 2011 di nuovo al Tunnel con le prime due stagioni di Classic in cui siamo riusciti a rimettere al centro la musica.
La tua storia abbraccia anche altri media. Non sei uno che si pone il tabù di rompere certi argini, mi sbaglio?
No, se sono rotti in modo rispettoso della mia storia e della mia visione della musica. Come dicevamo prima, sono cambiati anche i tempi, per cui se in passato avevo avuto degli abboccamenti con la televisione, ad esempio, le cose non erano mai andate in porto perché le opportunità non erano quelle giuste, o semplicemente non si concretizzavano. Oggi invece da un lato è necessario essere più visibili di prima, essere esposti. E dall’altro c’è la possibilità di esporsi nel modo giusto. A fine anni ’90 avevo dei rapporti con MTV e feci diversi colloqui, a un certo punto mi chiesero di andare in video, e non me la sentivo, mi sembrava fuori luogo, non ero pronto e non era neanche necessario per un dj. Qualche anno fa invece è successo con Sky e mi sono sentito pronto, perché c’era la possibilità di stare in quel posto nel modo in cui mi sento a mio agio. Ho sempre cercato di avere un ruolo, consentimi, un po’ “educativo” in quello che faccio, in consolle come in radio. Senza essere integralista, ma ho sempre cercato un approccio che mi ponesse nella condizione di poter spingere la qualità e la musica che ritengo importante. Le persone più giovani che lavorano nei media non sono più ancorate all’idea che la musica debba essere legata a certi paletti; è ormai diffusa l’idea che se hai un buon racconto, hai qualcosa di dire, e sai come dirlo, il contenuto funziona.
Radio, televisione, l’approccio alla consolle. Ci sono tante altre cose di cui potremmo discutere per giorni, come dicevo in apertura. Ma questa, come si dice, è un’altra. storia. Anzi, altre storie. Che presto o tardi Lele ci racconterà…
26.09.2017