Le giornate di Luca Pretolesi corrono via. Quando lo contattiamo per un collegamento video, è seduto, sereno. Dietro a lui, un bel giardino, le palme, il golf club, il segno di un break a spezzare la frenetica routine quotidiana fatta di giornate e nottate in studio. Las Vegas è assolata. Proviamo, con Luca che ci dà una mano, ad abbozzare un grafico immaginario che ci fa vedere i flussi di lavoro.
Luca spiega che lui, pandemia o no, “non è cambiato molto”. Cambiano solo le possibilità: “Quando prima staccavo la spina dello studio, avevo qualche opzione in più di adesso. Qui siamo abbastanza bene ma siamo estremamente preoccupati”, spiega. Basta stare attenti e seguire le norme quando la gente ti gira attorno. Nel Nevada, nella capitale dei divertimenti, il picco, secondo gli esperti, lo si accuserà nel mese di settembre, nonostante la città abbia una “bassa densità di popolazione”. Ma il viavai è continuo, tra turisti e professionisti, è costante.

Il fatto che sia arrivata l’estate, non ti ha cambiato poi molto la vita, no?
Nella mia giornata tipo, no. Vivo a tre minuti dallo studio in una golf community molto bella. Mi sveglio, faccio palestra, colazione e poi vado in studio e quindi parte della mattina è andata. Poi io lavoro molto con l’est del mondo, così sto in piedi sino a tardi per fare telefonate per via del fuso orario. Nel weekend però stacco, andiamo al lago o nel deserto e rilassiamo.
A livello professionale, come sta cambiando invece la tua giornata lavorativa? Percepisci input e pensieri diversi dagli ultimi tempi? Com’è il tuo stato d’animo?
In pratica, direi che ci siamo un po’ adeguati alla… nuova normalità. Il primo mese è stato strano perché io parlavo con gli amici o produttori europei e avvertivo un forte stato di panico e una grande tensione, soprattutto mentre parlavo con cinesi o taiwanesi. In America c’è stato inizialmente un approccio del tipo chissenefrega. Il mio lavoro però non è calato, mi ha tenuto occupato, felicemente occupato, ero preso con molte cose importanti che mi hanno portato via tempo e distratto. Non venendo più in studio tante persone come prima ho avvertito quando una perdita di vibe. Prima la gente veniva da me a finire un lavoro o a parlare per approvarlo, poi tutto improvvisamente è passato online e questo ha cambiato leggermente le cose. Sul piano umano certe cose le avverti.
C’è il desiderio, da parte di molti produttori, di essere lì da te. Sarà la tua verve, l’atmosfera che si respira nei tuoi studi, la voglia di dire ‘io ci sono’ con dei selfie time, resta il fatto che oggi questa routine va ripensata.
Siamo un team di nove persone, qui, tra studio e amministrazione, e la cosa che più ci è mancata è il frequentarci. Il fatto di aprire la porta dall’altra parte e chiedere una cosa per scambiare due idee, incide molto. Il fatto invece di rimanere su Zoom tutto il giorno per decidere due cose ha tolto un po’ di energia a quello che facciamo, nonostante siamo molto più organizzati di prima. Dal punto di vista della comunicazione, ci scriviamo più mail o via Whatsapp.

Avete riorganizzato tutto, quindi?
Bisogna considerare un particolare: noi, come società, lavoriamo su circa 700 dischi l’anno, più o meno; su questi non tutti lavoro io personalmente; però quei 700 dischi con la pandemia sono diventati 1000. Il lavoro è aumentato. Per fortuna non sono solo, c’è Jack e ci sono altri ragazzi. Il fatto che si lavori poi a un mix rapportandosi con le etichette indipendenti e con le major significa avere a che fare con dinamiche spesso opposte a livello di gestione. Se ti devi interfacciare con molti sulle decisioni, ti trovi spesso a un bivio: se parli con una label le cose si rallentano, se parli con un producer c’è molta più libertà.
Così la gente sta mettendo fieno in cascina?
Sono in molti ad aver deciso di produrre più dischi senza farli necessariamente uscire. Il flusso comunque è aumentato e molti, come Diplo e altri, approfittano del tempo libero e in modo molto positivo perché sanno che non possono fare i live. Stanno soffrendo un po’ quei dj producer che producevano poco e che si sono rattristati perché gli manca l’esibizione dal vivo, che porta soldi.
In passato provavi la lacca di vinile e adesso invece provi direttamente l’mp3. Con i live fermi, come fare i test con le tracce ID e come essere sereni che il lavoro sia giunto a buon fine?
Molti possono assumersi più rischi di prima perché si preoccupano meno delle risposte che provengono dai club. Ho notato che alcuni sono intenzionati a provare uno stile nuovo e vogliono cambiare leggermente perché è un momento di svolta dove puoi provare qualcosa dove il tuo feedback non arriva dal club ma arriva dal web. In America ora c’è molta più attenzione per esempio alle playlist di Spotify. Oggi i dischi escono tutti un po’ più in sordina.

Studio DMI è una specie di dj town, un parco dei divertimenti per i dj produttori. Dopo quello che è successo, manterrai la struttura così com’è e come l’avevi originariamente allestita o la adatterai con green screen e telecamere per nuove esigenze, come webinar e quanto altro?
Da noi c’è già molta interattività. Abbiamo apportato molte modifiche di questo tipo: quando io lavoro e sto al mixer ci sono già quattro cam che mi seguono; il cliente mi può seguire e approvare il lavoro come se stesse in studio seduto al mio fianco. Il flusso è ormai in real time. Sono attivamente coinvolto in una serie di webinar che hanno sostituito tutta una serie di eventi che avrei dovuto tenere in giro per il mondo. Lo streaming privato lo riservo alla parte educational, ogni settimana.
La crisi viene avvertita anche da quelli che abitano i piani alti: insomma, come se la passano le superstar dj?
Quelli che fanno questo lavoro da più di 15 anni e guadagnano 25 milioni l’anno? Alcuni di loro sono miei clienti e la crisi non li ha toccati più di tanto e la prendono con filosofia. Un producer come Mehdi ha avuto inizialmente un piccolo attacco di panico e poi gli è passato. Molti si sono adeguati. In America questa cosa si sta prolungando mentre da quanto ho capito l’Europa sta cercando di ripartire. Se prima seguivamo più l’istinto, adesso si pensa più alle strategie.
Pensi che la mancanza dei live possa influire negativamente sulla produzione e la discografia? In Italia molti dj set rivivono all’interno di spazi inusuali ai più, come spa e ristoranti.
Vivo da anni una realtà legata alla città che mi ospita, Las Vegas, che è basata interamente sull’economia. I giovani frequentano casinò, piscine e ogni luogo ha la sua colonna sonora. Lo streaming in generale ha dato molta più libertà a tutti di esprimersi, inclusi i dj e producer. Il cambio di stile in questo ultimo periodo di due mesi si è notato. Le radio ad esempio propongono promozionali di brani nuovi e stranieri che magari non rientrano nella consuetudine. Il fatto di essere comunque richiusi tra delle mura a lavorare e non avere relazioni con altre persone, cambia molte cose. Quello che noto molto qui è lo streaming in generale, che ha dato molta più libertà ai dj producer di esprimersi in libertà in qualche modo.
Accademie, scuole, maestri impeccabili e professori improvvisati: il mondo della formazione nel campo della produzione musicale di cosa necessiterebbe per avere il decantato effetto wow?
La gente ha possibilità di usufruire di molte di queste opzioni sulla specializzazione in fatto di apprendimento. Ma spesso tralascia un punto fondamentale: non ha capito che per produrre devi imparare a gestire meglio la parte creativa, poi devi pensare a quella tecnica; diventare un sound designer è un conto, essere un songwriter un altro. È vero, con un buon mix e della tecnica riesci a sistemare una produzione mediocre, ma ha senso? Molti vengono da me a chiedermi di far suonare il loro brano come quello che in quel momento sta riscontrando successo, solo che non capiscono l’efficacia e l’unicità di una vere e forte canzone. Bisogna fare tutti un passo indietro ed evidenziare le peculiarità e i punti di forza di una produzione, non prendere in considerazione un suono di cassa. La differenza la fa chi la scrittura.

È successo anche a grandi produttori di uscire con un progetto artistico personale. Ti è mai venuta l’insana idea di metterti in gioco con nome e cognome nel mercato?
No, e per un motivo preciso. Io faccio un lavoro molto simile a quello di un avvocato, che ha tanti clienti, segreti tutelati dall’etica professionale basandosi su confidenze e consulenze. Se io ricevo un disco nuovo molto importante e so che uscirà il prossimo inverno, è giusto che mi metta in concorrenza con i miei stessi clienti producer producendo me stesso e sapendo che potrei attingere dai loro suoni e dalle loro idee? Sono in una Fase 2 della mia vita e ho deciso di non mettermi in concorrenza con gli artisti. Quando facevo i dischi da artista, la mia intenzione non era quella di approfondire la tecnica ma di andare a suonare in giro; poi, è vero, non vedevo l’ora di essere di nuovo in studio.
Due leggende metropolitane che ti riguardano: è vero che ti eri auto-costruito in modo artigianale il banco mixer?
La situazione era molto più complicata. Il mio primo banco mixer fu un Amek che divisi in due parti per gestire meglio canali e ritorni.
È vero che sei stato il primo ad avere un campionatore Akai in Italia e che il libretto d’istruzioni era in giapponese?
Acquistai il mio Akai di importazione e le scritte sul led erano tutte in giapponese e non capivo nulla. Dovetti comprarne un altro, fortunatamente in inglese.
Abbiamo parlato di presente e passato ma non possiamo non chiudere immaginando il futuro. Come saranno gli Studio DMI del domani?
Credo e investo nell’intelligenza artificiale applicata puramente alla tecnica e proprio per questo collaboro molto con l’italiana Acustica Audio, anzi, ringrazio Giancarlo Del Sordo di avermi fatto entrare in questa questa attività. Da poco è uscito Diamond Transient, che ho sviluppato per ridefinire completamente il modo in cui si lavora con le dinamiche ed è perfetto su percussioni, chitarre, sintetizzatori e mix. La tecnologica non ci darà una mano a livello artistico, non credo ci porterà dei benefici nella creatività.
30.09.2020