Magia. Una parola carica di fascino e mistero. La magia è quell’impalpabile alchimia che fa accadere cose che non succederebbero in condizioni normali. Quel piccolissimo spostamento nell’equilibrio degli elementi in campo sufficiente per generare una reazione. Magia è il termine più azzeccato per definire la musica di Luciano e della sua etichetta Cadenza, che ha festeggiato i suoi quindici anni di attività lo scorso dicembre. Non è un caso che Luciano su Instagram sia presente con l’account Magik Luciano. C’è sempre la magia di mezzo. Quella magia che ha permesso a un dj e producer svizzero cileno di spostare gli equilibri e portare suoni e umori diversi in un genere già fortemente codificato come la techno, riuscendo nell’impresa di darle forma nuova. Magia è la parola che mi viene da usare anche per descrivere questa intervista. Così importante, perché Luciano aveva deciso di aprirsi e confidarsi con noi su temi scomodi e intimi, e l’occasione era quindi irrinunciabile. Ma lo spostamento degli equilibri ci aveva messo del suo, e ho rischiato di non esserci proprio in un momento così. La magia è anche quella di correre comunque all’appuntamento nonostante l’auto si fermi nel bel mezzo del traffico all’ora di punta di un venerdì milanese di metà dicembre. E di arrivare puntualissimo, preciso, in perfetto orario, nonostante l’universo abbia deciso di girare nella direzione opposta. Magia.
Luciano è sereno ed estremamente accogliente, mi aspetta nella lobby dell’hotel milanese dove alloggia, un luogo comodo e ospitale dove ci mettiamo immediatamente a nostro agio. È in città per suonare ai Magazzini Generali, una serata speciale in cui si festeggia per l’appunto Cadenza. È sorridente, è deciso a rivelarmi fatti e dettagli della sua storia che in pochi conoscono. Ha attraversato “el infierno de Dante”, mi ripete più volte. Gli eccessi, lo smarrimento umano e professionale, i rischi, la salute, e poi il percorso di riabilitazione lungo e difficile che l’hanno portato alla rinasciata. Umana e artistica. E naturalmente la gioia della consapevolezza che la sua creatura, Cadenza, è ancora qui, a dettare legge sul mercato dopo molti anni. Quindici. Un secolo, per i tempi della dance. Un saluto, due battute. Ci mettiamo comodi. Si comincia.
Cadenza celebra quindici anni di vita. È un viaggio davvero lungo, iniziato in un momento molto diverso da quello attuale per il panorama della musica da club. La tua è stata un’idea rivoluzionaria, hai portato elementi assolutamente nuovi nella techno e nella house, le percussioni sudamericane in una prospettiva inedita mischiate a una certa “ipnosi” nel suono. Come ti è venuto in mente di mettere tutto questo insieme e di fondare una label che avesse quel feeling?
Ti ringrazio per queste parole così lusinghiere. All’inizio non c’era un’idea pianificata, era solo voglia di seguire una musica e una filosofia musicale che io, e le persone che condividevano questo progetto con me, sentivamo. Quando si decide di compiere un passo importante, come mettersi a produrre musica propria o aprire un’etichetta, ma anche scrivere poesie, girare film o dipingere quadri, si è sempre in qualche modo orientati a… non dico copiare, ma ispirarsi alle fonti che hanno significato qualcosa per noi. Altri artisti, o il nostro passato, le nostre radici. È il motivo per cui ho portato il Sud America nelle produzioni di Cadenza. Vengo da lì, dal Cile, e ho cercato di portare gli elementi della mia terra nella mia musica: un certo tipo di percussioni cilene e andine, ma non solo. Anche quella sorta di malinconia, di nostalgia, che è difficile da spiegare ma è tipica delle nostre parti.
Dove vivevi quando sei partito con Cadenza?
Ai tempi vivevo in Svizzera, dove sono nato e poi tornato dopo essere cresciuto in Cile, ma stavo per trasferirmi a Berlino. Avrei vissuto lì negli anni in cui la città era un tesoro inesplorato, e di fatto Cadenza è nata in quell’humus berlinese così fervido e stimolante. Sai perché è nata Cadenza, qual è stata l’esigenza?
Quale?
Avevo prodotto ‘Orange Mistake’ insieme a Quenum e la traccia non trovava nessuno che la pubblicasse, era un uccello che ci sembrava potesse volare alto ma non trovavamo un nido da cui farlo decollare. Allora decisi di crearglielo io. Mia sorella è una graphic designer e chiacchierando con lei prendemmo questa decisione di aprire una label insieme. ‘Orange Mistake’ infatti è l’uscita 001 di Cadenza.
Siete ancora insieme, tu e tua sorella?
Naturalmente.
A che punto era la tua carriera a quel tempo?
La mia carriera non è mai stata completamente assorbita dal fatto di essere un dj. Sono sempre stato molto più producer che dj, vengo dai live e a un certo punto, in quel periodo, mi attirava di più l’idea di fare il dj rispetto a quella di suonare dal vivo come avevo fatto a lungo. Per diverse ragioni: era elettrizzante l’idea di suonare pezzi di altri, era più facile viaggiare con una borsa dei dischi e allestire un set up, era economicamente più vantaggioso e mi impegnava, all’epoca, solo nei weekend. Il mio piano era quello di arrivare a mettere insieme abbastanza soldi per costruire il mio studio, quello era il mio obiettivo.
E a che punto sono la tua carriera e Cadenza oggi?
Cadenza è al punto in cui abbiamo deciso di tornare alle origini di ciò che facevamo, perché erano i momenti più ispirati. Siamo arrivati ad avere venticinque artisti, un’agenzia di booking, a gestire il management e a muovere una gran quantità di persone e di affari, eravamo questa specie di tribù che viaggiava sempre insieme e se da un lato era davvero bello, dall’altro la situazione mi era sfuggita di mano. Perciò abbiamo deciso di rimodellare tutto su una scala ridotta, siamo mia sorella, io e pochi fidati collaboratori e artisti con cui lavoriamo. Non è più importante fare certi numeri, direi nemmeno guadagnarci, Cadenza è una realtà dove stampiamo i vinili e facciamo tutto con passione e con amore, un’etichetta artigianale dove ci divertiamo a fare ciò che facciamo. Ne abbiamo la possibilità e va bene così. Anzi, è il modo migliore di fare le cose. Lo stesso vale per la mia carriera: sono tornato a fare remix, a divertirmi, a portare lo spirito che c’era nelle prime produzioni Lucien N Luciano, che siano particolarmente dance o meno non è importante. È lo spirito, l’attitudine, che conta.

Tu hai cambiato il panorama dance. Tu e Cadenza avete portato il seme di uno stile nuovo in un momento, diciamo tra il 2003 e il 2006, in cui la musica house e techno erano noiose, stagnanti. Secondo te che impatto avete avuto sulla musica e direi anche sul modo in cui un certo tipo di pubblico si approccia al clubbing?
Mmm… beh, house e techno non dovrebbero mai stancare, o essere noiose. Sono generi nati per fare festa e quindi gioiosi per antonomasia. Ma quello che hai detto è proprio vero, c’è stato un momento in cui si avvertiva una saturazione in quello che c’era in giro. La situazione stagnava. Ce ne siamo accorti io e altri pochissimi amici, tutti dj e produttori che non trovavano nulla di eccitante in ciò che usciva. Allora ci siamo messi a fare ciò che ci emozionava, con quelle percussioni, quelle soluzioni organiche, ipnotiche, folli, minimali e fuori dagli schemi per gli standard di allora. E siamo arrivati al momento giusto, era uno stile nuovo. Io ripeto sempre questa idea: non è stata questione di essere un nuovo dj, non era il personaggio ma era la musica, il feeling.
Lo spirito.
Lo spirito, esatto! C’era qualcosa di nuovo nell’aria e aveva una sua impronta, una sua forte identità.
Io non sono mai stato un grande fan della techno più minimale ma in quelle produzioni c’era un movimento, una sensualità che faceva la differenza, ed era irresistibile.
Era la voglia di differenziarci da ciò che si sentiva e di riportare la voglia di ballare per davvero sul dancefloor. Era musica sensuale. Giusto. Era minimale ma diversa dalla minimal che andava di moda. Sono felice di poter dire che abbiamo creato uno scarto, abbiamo fatto in modo che ogni dj avesse una sua personalità, a me piace quando ognuno ha il suo sound, dev’essere così. Oggi troppo spesso non lo percepisco. Non dico che siamo di nuovo al momento in cui la musica sia diventata noiosa, ma vorrei sentire in modo più marcato quando c’è un cambio in consolle tra un dj e l’altro, spesso sento una monotonia eccessiva.

Non credi che questa monotonia possa negli anni aver afflitto anche i tuoi set?
Spero di no! Mi rendo conto di una cosa: non si può essere per sempre una novità. Ma bisogna sapersi porre nuove sfide, cambiare suono in base a cosa ci piace, a cosa riteniamo coerente con noi ma anche stimolante, la musica dev’essere una sfida, non c’è nulla di peggio di un artista che mette il pilota automatico e finisce per appiattirsi su schemi che diventano “soliti”. Un artista deve odiare il “solito”.
In questo momento ti piace ciò che fai?
Sì. Sai… ho… ho sofferto molto. Ho sofferto le pene dell’inferno per un momento molto lungo. Sono passato nell’inferno di Dante, ho patito momenti davvero terribili ma ora sono sereno, sono tornato in forma e sono un uomo maturo, sono cresciuto. Sono tornato a fare ciò che amo con la giusta concentrazione e contento di poterlo fare al meglio, non sto parlando solo di musica ma dell’opportunità di vivere questo tipo di vita.
Parlami di questo inferno di Dante. Mi vuoi raccontare di più?
Ho avuto una vita… diciamo rock’n’roll, da rockstar, per almeno una ventina d’anni. Decisamente sopra le righe. Ne ho esplorato ogni angolo. Ho provato ogni sensazione e… ogni cosa. Capisci cosa intendo.
E come si arriva a quel punto lì, ad essere una rockstar a cui ogni porta è spalancata?
Succede lentamente, ci si scivola senza che ce ne si accorga. Quando ti trovi a fare quei brindisi in cui tutti alzano il bicchiere e c’è quell’euforia generale, leggera, disinibita, ti senti bene, non pensi a niente. Poi ti succede sempre più spesso ed è ok. E poi non ti succede più soltanto con lo champagne. Ma con tutto. Sostanze, persone, situazioni. Ho fatto questa vita per ventidue anni e per molti di questi anni ci sono stato benissimo, era una bolla, non si toccava mai terra.
Ma poi hai tirato il freno.
Ho dovuto. Ti faccio una confessione molto sincera e difficile: ci vuole tantissimo coraggio a guardarsi allo specchio e affrontare un percorso del genere. Dire “basta” e uscirne è davvero complicato.
Hai rallentato o hai tirato il freno a mano in corsa? Voglio dire, c’è stato un momento preciso in cui hai deciso di dare un taglio agli eccessi?
Sì, c’è stato un momento preciso. Era una questione di vita o di morte. Tutto qui.
Ah.
Sì. Ho scelto di vivere. Semplice.

Senti, alleggeriamo un po’: immagino che nei tuoi anni rock’n’roll avrai combinato cose memorabili.
È divertente che tu dica “cose memorabili” perché in verità ne ricordo ben poche, spesso sono gli amici a riportarmi alla memoria fatti clamorosi. E a farmi sentire un perfetto clown. Era come un circo, infatti.
C’è qualche episodio particolarmente gustoso che ti va di raccontarmi?
Nel 2007 avevo un grande successo e con Cadenza avevo una residenza al Panorama Bar al Berghain. Una sera la sala era strapiena, il mio set andava alla grande, quando a un certo punto qualcuno mi passa un bicchiere con dentro non so cosa. Io butto giù senza pensarci, era quello spirito, la bolla di cui ti parlavo. Ma in un attimo perdo completamente il senso della realtà, mi ritrovo a fare il pagliaccio in giro per la sala e lascio la consolle. Il disco gira e io sono a gattoni a spasso per il Berghain. Mia moglie rimette la puntina all’inizio del disco per diverse volte mentre tutti mi cercano. Io nel frattempo ero uscito dal club, non ricordo dove sono andato ma mi sono messo a girare per Berlino completamente privo di capacità di intendere e di volere. Mi hanno ritrovato il giorno dopo, mi sono svegliato sotto la pensilina di un autobus da un’altra parte della città.
Beh, questa era forte. E immagino che ce ne siano mille altre che potresti confessare…
Sì, e posso dirti una cosa. Non vado fiero di questi aneddoti, ma sono esperienze di cui oggi posso permettermi di parlare, e ne parlo volentieri, perché le vedo distanti e le ricordo con un sorriso per ciò che sono state. Ma a un certo punto era diventato un inferno vivere così, prima non ho detto “l’inferno di Dante” per caso. E ho capito che dovevo uscirne, cambiare stile di vita.
Oggi i dj come te sono delle superstar, e non riguarda solo il “lato rock’n’roll” di questo status. Credo che a volte i dj debbano essere degli esempi per i ragazzi che li vedono come i loro eroi. Non voglio essere retorico e odio l’ipocrisia, ma credo che si debba fare in modo di essere persone da prendere a modello per la profondità artistica e umana. Al netto di un perbenismo da “buoni e puliti”, ma con coerenza e coraggio delle proprie idee, non solo a colpi di like. Tu che ne pensi?
Questo è il motivo per cui ho deciso di aprirmi, di confessare le mie esperienze. Ho avuto un certo stile di vita, voglio condividere le scelte che ho fatto nel cambiare quel modo di vivere. Voglio condividere tutto questo perché credo che possa aiutare a generare una coscienza comune, senza retorica, come dici, senza pudori falsi e ipocriti, ma mettendo in gioco la mia esperienza. Credo ci sia un’interpretazione sbagliata del nostro mondo da fuori, come c’era verso il rock in passato. Dici “techno” e molti pensano “droga”. Ma non è così. Non solo, perlomeno. Il concetto di techno è quello della danza, della comunità, della condivisione. Non c’è musica più popolare al mondo, oggi, a qualsiasi latitudine. Ed è nostra responsabilità far capire a tutti che non si tratta solo di musica per drogati. È parte della nostra cultura, della nostra vita. E moriremo con questa cultura nel cuore, la porteremo orgogliosamente nella tomba. Ciascuno può fare ciò che preferisce, ma sono del parere che si debba riportare la vita dentro questa musica, e creare una coscienza comune. Quindi ci si deve esporre. Siamo liberi di comportarci come meglio crediamo ma ogni nostro gesto deve avere un valore.
La musica è politica, secondo me. Addirittura le droghe lo erano in un certo periodo, no?
Sì, in passato non c’era questa zona oscura e così fortemente materialista. Perché si esce e si va a ballare? Per amore. È amore. È voglia di vivere, voglia di condivisione. Sono dei valori fortissimi, non sono cose da fricchettoni. È politica, in un certo senso, sì. Anche per le droghe, in parte, esisteva una mentalità del genere. Ingenua, libera. Non sto giustificando nulla, ne ho preso le distanze e ne sono convinto. Ma va detto che un tempo era anche così. Oggi invece non vedo più questo senso di libertà nemmeno verso la musica, spesso.
Non hai paura di poter ricascare nell’inferno di Dante?
A volte. Ho paura, sì. Le tentazioni ci sono. Ma cerco di essere forte, penso a Dante e subito mi freno!
Tieni una copia della Divina Commedia sul comodino?
Ahahah esatto!
Torniamo alla musica: quali sono gli artisti più interessanti che senti in giro in questo momento?
Tantissimi. Ti farò un’altra confessione: io amo Spotify. È una piattaforma che dà moltissime opportunità per scoprire nomi nuovi ogni giorno. Mi piace ascoltare tantissimo jazz, per esempio, o James Blake, o chitarristi acustici. Spesso non cerco un genere preciso, ma navigo a vista. Se devo dirti un nome che mi ha davvero colpito quest’anno, è Leon Bridges. È incredibile.
Ho avuto l’opportunità di sentirti suonare un paio di volte negli ultimi mesi. Sbaglio o sei diventato un po’ più aggressivo e duro nel sound?
Dipende. Il mio ideale è suonare intorno ai 122-123 bpm, un ritmo lento che mi permette di affrontare il set con il piede giusto. Ma se prima di me c’è un dj che picchia a 128, può darsi che anziché resettare subito preferisca partire da dove lui ha lasciato e poi riportare il discorso a un tempo più morbido, è una sfida interessante quella di continuare a far ballare il dancefloor e calmare certe aggressività. E poi dipende dal posto in cui suono, dall’orario, dal pubblico, da come mi sento, dall’energia che c’è in sala. Dall’impianto. Se c’è un impianto che non regge bene i bassi rotondi e profondi dei pezzi più deep, allora si perde il feeling a suonare quei pezzi. Il bello di essere un dj è che posso suonare un set disco o un set techno, il filo conduttore sono io, è la mia personalità.
Invece io sento sempre più spesso dei dj – e la cosa grave è che accade anche con le superstar – che suonano “la loro cosa”, non hanno il minimo feeling con il pubblico. Sono monotoni e monocorde, sanno suonare solo un tipo di set, che sia alle 4 di pomeriggio in un festival o alle 4 di mattina in un piccolo club. Perché?
Non so perché. Lo sento anch’io. Credo possa essere quell’effetto “pilota automatico” di cui ti parlavo prima, magari uno ha cinque date a settimane e perde il gusto di fermarsi a fare ricerca. Ma è sbagliato. Per me si tratta di una sfida. Non di andare a mettere i soliti dischi in fila perché il pubblico ci conosce per quel tipo di set.
07.01.2019