• SABATO 03 GIUGNO 2023
Interviste

L’uomo che per 30 anni ha trasmesso musica elettronica nello Spazio

John Shepherd ha trascorso gran parte della propria esistenza a cercare di contattare forme di vita extra-terrestre con la musica elettronica. E noi ci abbiamo parlato

Se siete appassionati di spazio, galassie, buchi neri e anche della cara vecchia musica elettronica, la storia che dovete ascoltare è quella di John Shepherd. Cresciuto nel Michigan, John ha trascorso trent’anni della sua vita a trasmettere musica nello spazio profondo. Dai Kraftwerk ai Tangerine Dream, passando per l’afrobeat, i trent’anni del programma radiofonico Project S.T.R.A.T – ospitato, editato e gestito interamente da Shepherd – sono stati raccontati adeguatamente in quindici minuti nel cortometraggio Netflix ‘John e La Musica Per Gli Alieni’. John è dipinto come un essere umano fragile ma curioso, stordito dal fascino del grande ignoto e dal profondo e bruciante desiderio di interagire con una nuova forma di vita, forse come via di fuga dalla propria esistenza difficile. Ufologo dilettante ma non troppo, John ha completamente ristrutturato la propria casa ricoprendola di astri magnetici, oscillatori, trasmettitori, antenne varie e quanto serve per spedire un segnale radio a oltre un milione di kilometri di distanza dal pianeta Terra. Appena finito di vedere il cortometraggio ho rintracciato John su Facebook e gli ho proposto di fare due chiacchiere sul tema. 

 

“È così speciale l’idea di stabilire un contatto con una forma di vita intelligente al di fuori della Terra”. John è sempre stato affascinato dagli avvistamenti di UFO e UAP al punto che ad un certo punto ha pensato che sarebbe potuto essere proprio lui a svelare il grande mistero di chi ci fosse dietro. “Volevo attirare l’attenzione di eventuali forme di vita che si sarebbero avvicinate alla Terra. Era questo lo scopo del Progetto S.T.R.A.T”. Le trasmissioni comprendevano musica di ogni tipo: “tutto ciò che scoprivo e ritenevo sufficientemente originale e creativo, ma anche profondo. Principalmente elettronica, ma anche jazz, folk, ambient, world music, soul e ogni tanto anche rock“, mi spiega. Dai Kraftwerk a Mark Dwane, tutto ciò che fosse dotato di un’anima e possibilmente “non-pop”. Ma non fa paura pensare di inviare musica a milioni di kilometri di distanza dalla Terra? John non ha dubbi: “nessuna paura, solo il fascino dell’aprirsi ad una nuova forma di coscienza e conoscenza.” Come avveniva, fisicamente, tutto ciò? “Con un trasmettitore ULF (Ultra Low Frequency) puntato verso le stelle” mi spiega, “con un segnale radio dalla potenza di oltre 1000 watt.” E poi amplificatori, su amplificatori, su amplificatori. L’attrezzatura ricopriva tutte le stanze della casa e anche una cascina in giardino. Il Progetto S.T.R.A.T si è concluso al termine dei finanziamenti che John riceveva da diversi istituti. 

 

Ma sarebbe bastata la musica, come linguaggio per stabilire un contatto? “Impariamo il piacere delle note musicali quando siamo ancora neonati, senza alcuna istruzione o impostazione esterna. In questo modo, si può provare che la musica sia un linguaggio universale.” Musica elettronica ed esplorazione spaziale vanno da sempre a braccetto e non a caso i generi elettronici sono quelli preferiti nelle selezioni di John. L’ho scoperta tra i 12 e i 15 anni, la musica elettronica”, mi racconta, “grazie alla serie TV ‘Fireball XL-5’ che trasmettevano nella TV inglese, in cui la musica elettronica faceva da protagonista alla colonna sonora.” La musica elettronica è quello lo ha accompagnato anche nei difficili anni giovanili, quando il suo orientamento sessuale lo ha fatto sentire escluso dalla comunità del Michigan. “Una fuga dalla realtà, una porta per accedere a nuovi ambiti creativi e per poter raggiungere la più pura delle forme della felicità e della pace mentale.” Da qui è nata anche una lunga opera di ricerca, per perfezionare sempre di più quella sensazione.” Allora questa fuga era anche una forma di terapia. O magari un SOS. Forse era John, l’alieno. “Può essere, in effetti. La ricerca di un segnale è durata per tutta la mia vita e forse non è un caso che abbia trovato la comprensione e la compatibilità con un essere umano pochissimo tempo dopo aver smesso.” Lo ammette lui stesso che forse la sua missione fosse trovare sè stesso, a milioni di kilometri di distanza dalla sua stanza, dal suo Michigan. Ma c’è anche molto di più. 

 

“Costruire tutta quell’attrezzatura e quelle macchine rappresentava una chiara necessità di aprirsi a qualcun altro. Ad un ipotetico “prossimo”. La magia della condivisione era la chiave dell’attività di invio di musica nello spazio profondo.” Fatto sta che l’opera di John non è servita solo a John, o ai produttori di Netflix. Potrebbe rappresentare qualcosa di più grande. “I segnali radio inviati nello spazio in questo momento potrebbero essere ancora in viaggio in qualche galassia, a chissà quanti anni luce di distanza. Qualcuno potrebbe essere in ascolto senza capacità di risposta. Spero che altri dopo di me facciano altrettanto, potrebbe fare la differenza.” E allora la fatidica domanda: ricominceresti, con nuova musica, oggi? “Subito.”

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25 anni. Romano. Letteralmente cresciuto nel club. Ama inseguire la musica in giro per l'Europa ed avere a che fare con le menti più curiose del settore. Penna di DJ Mag dal 2013, redattore e social media strategist di m2o dal 2019.

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