• DOMENICA 24 SETTEMBRE 2023
Interviste

MACE racconta il suo album ‘OBE’ e la necessità di libertà: “la hit non arriva se la cerchi”

Un album destinato a cambiare i connotati del pop in Italia, raccontato dal suo autore, in una lunga intervista dove si parla di musica, di vita, di scelte, e dove la parola chiave è una: libertà

Foto: Francis Delacroix

MACE, al secolo Simone Benussi, milanese, classe 1982, è uno dei nomi più chiacchierati degli ultimi anni. Ha messo le mani su una notevole quantità di successi recenti, lavorando per Salmo, Fabri Fibra, Ghali, IZI, Gemitaiz, Venerus e tantissimi altri con risultati stellari; e all’estero è riuscito a piazzare una hit da numero uno con Sjava in Sudafrica e diversi colpacci con gente come Mc BinLaden in Brasile, per esempio. Soprattutto, è un artista che ama uscire dalla propria comfort zone, anzi che proprio rifugge l’idea di comfort zone. Oggi esce con il suo primo album da “titolare”, che si intitola ‘OBE’, acronimo per Out of Body Experience, esperienza extra-corporea. Un disco sorprendente e importante, perché è di fatto un disco pop, ma che porta immediatamente la concezione di pop su un livello decisamente più intrigante, avanguardista, libero, nuovo. Libertà è la parola chiave del lavoro di MACE e della sua vita, leggendo questa intervista lo capirete presto. La stessa libertà che ci siamo presi nel concederci una chiacchierata lunga e intensa, alla faccia delle “regole” del web che vogliono gli articoli brevi e concisi. Amen. Ne valeva la pena.

Preceduto da un singolo di grande successo, ‘LA CANZONE NOSTRA’ con Salmo e Blanco, in ‘OBE’, che esce su Universal (anche qui c’è il coraggio contagioso di convincere una major a pubblicare un disco senza troppe reti di protezione) ci sono tantissimi ospiti. Ma non è la classica “raccolta delle figurine” della giostra dei featuring. Qui si gioca, si azzarda: si mette Chiello degli FSK Satellite con Colapesce, si mette Rkomi con Venerus e Ketama126 con gli Psicologi. Con MACE ci siamo presi il tempo di sviscerare questo grande album, che è destinato a scrivere una pagina importante nella storia della musica italiana ed è un calcio d’inizio significativo per gli anni ’20; e poi di parlare di vita, musica, cambiamenti e tanto altro acnora. Mettetevi comodi, prendetevi il vostro tempo.

 

Esci con un disco molto importante, perché è la fotografia di una scena italiana che è riuscita a diventare pop senza piegarsi alle regole del pop ma anzi a cambiarne i connotati, cosa impensabile fino a pochi anni fa. E il singolo ‘LA CANZONE NOSTRA’ è da due settimane tra i più ascoltati in radio e in streaming in Italia. Quando hai pensato di poter fare un pezzo pop “da radio”? Quando hai pensato “MACE sta diventando un progetto che può arrivare a fare una hit pop”?
Ci sono due layer su questa domanda: il primo è finalmente la musica in Italia funziona, mi piace, raggiunge un pubblico sempre più ampio ma rimane figa”, e hai azzeccato il mio pensiero. È una cosa che non è mai esistita così tanto secondo me, perlomeno a mio gusto personale. La musica italiana che ascoltavo alla radio, fin da ragazzino, non mi è mai piaciuta. Ora dico wow! E questo è un fattore chiave, questo ribollire di buona musica italiana è stato una spinta per mettermi a produrre un mio album, idea che ho iniziato a mettere in pratica al mio ritorno da Johannesburg, dove ho in realtà prodotto un intero album con artisti africani che poi però ho deciso di non far uscire.

Perché?
Perché quando sono tornato in Italia ho capito che aveva senso là, non qui. Per me è stata un’esperienza trasformativa, utilissima, ma deve restare nel mio computer, non intendo pubblicarla perché non ha motivo di esistere, in pubblico, rispetto al mio percorso.

Quanto coraggio ci vuole a non far uscire un tuo disco, che oltretutto ti piace?
È una sofferenza, credimi. Io ho centinaia di tracce finite, e di beat, che tengo nel cassetto. Poi a volte ci penso e dico “è una bomba, dovrei pubblicarla!”, ma alla fine no, non è cosa. Magari un giorno verrà il momento, oppure usicranno decine di compilation di mio materiale postumo, tipo J Dilla, chissà…

Perché eri andato in Sudafrica?
Per me ha significato un nuovo approccio, una lezione di vita, e il bisogno di staccare, andare via dall’Italia per un po’, trovare nuovi stimoli. E poi, amo viaggiare, mi considero un viaggiatore prima di tutto.

Foto: Francis Delacroix

Eravamo rimasti alla domanda su ‘LA CANZONE NOSTRA’, un brano pop primo in FIMI. Vero, c’è Salmo che è un traino importante, ma la parte del leone la fa Blanco, non proprio uno famosissimo, fino ad oggi.
Per quanto sia difficile da credere, quando ho firmato con Universal mi sono dovuto confrontare con un major e per onestà ho dovuto dirgli schiettamente “ragazzi, io non voglio fare una cosa che non mi va per andare in radio, non punto ai grandi numeri, punto a fare una figata”. E sono sempre un po’ disilluso su come il pubblico italiano recepisce la musica, mi spiace dirlo. Universal però mi ha dato fiducia e carta bianca, ma non pensavo di riuscire a sfondare in radio, sinceramente.

Perché?
Perché la radio è ancora una materia ostica, è uno scoglio, le radio parlano ancora un linguaggio diverso da quello dello streaming. Ci sono dinamiche diverse e se i ragazzi ascoltano in streaming tante novità e tante cose innovative, anche grazie all’assenza di filtri e al passaparola, in radio non è così. Ci sono tanti paletti, legati a vecchi schemi. Far arrivare un pezzo “bello” in radio è un’impresa. Conta poi che ‘LA CANZONE NOSTRA’ è nata come un brano ambient, era tutt’altro rispetto al pezzo uscito. Un giorno è passato in studio Blanco, io lo conoscevo per le sue canzoni più hardcore, più punk, ma ho pensato che la sua voce lì avrebbe potuto tirare fuori delle corde emotive, e un potenziale melodico ancora inedito, e infatti ha funzionato. Ho programmato le batterie mentre lui cantava. Figurati se mi potevo immaginare che il brano di lancio dell’album sarebbe stato l’ultimo chiuso prima di consegnare tutto il lavoro, oltretutto cantato un diciassettenne ancora sconosciuto ai più e fatto al volo, di getto. Ma è così, per me. La hit arriva quando non la cerchi, almeno io se la cerco non arriva. E se ti esce quando la cerchi si sente. Non è il mio modo di fare musica.

Questo disco è una bellissima foto di gruppo di un momento molto particolare per la musica italiana, e poi ci sono anche tanti accostamenti molto intelligenti e spiazzanti tra i featuring. Com’è essere il collante di tutto questo?
È tutto puramente isitintivo. Io ragiono “a blocchetti”, un passo alla volta. Inizio un pezzo con Colapesce, poi a un certo punto penso “chi ci starebbe bene qua?” E per me viene naturale pensare a Chiello, o magari accostare Gué con Venerus. Spesso sono artisti con estetiche completamente differenti eppure io ci trovo il link e decido che devono andare insieme su quel pezzo. Hanno accettato quasi tutti a cui ho chiesto una collaborazione, mi rendo conto che si fidano di me ed è una cosa molto bella che non davo per scontata. Magari nel testo o in una sonorità ci vedo d’istinto il legame, non è razionale, è istinto, emotività, sono commistioni che però hanno funzionato.

Perché si fidano di te?
 Credo sia un mix di esperienza e di vibe umana, credo di avere la capacità di mettere le persone a proprio agio. Poi io parlo tantissimo con gli artisti, è il mio modo di lavorare. Li faccio venire in studio e parliamo per ore prima di metterci davvero a fare i pezzi, e per me quello è parte del lavoro, si entra l’uno nella dimensione dell’altro e così nascono input e idee, e una sensibilità comune. Chiacchierando si scoprono aspetti sorprendenti degli artisti, che di solito non ci sono nella musica. Ed è lì che scopri che Colapesce sta bene con Chiello degli FSK, ad esempio.

C’è qualcuno che ti ha detto di no?
Sì. Però devo dire che erano tutti dei “no” sentiti, per tempistiche, incastri, impegni che si sovrapponevano e non hanno proprio reso possibile il featuring. Niente di personale, ecco. Tutte situazioni comprensibili.

E qualcuno che avresti voluto?
Beh, Stevie Wonder non sarebbe stato male!

Così è troppo facile! Viventi, intendo. Viventi e raggiungibili.
Sì, ci sono due o tre nomi che avrei voluto fortemente nel disco. Ma chissà che non saranno sul prossimo…

 

Tra i tanti ospiti ce n’è uno che ricorre, e che mi pare di capire è stato anche fondamentale in fase di scrittura, è un elemento portante della struttura di ‘OBE’. Venerus. Che mi dici di lui?
Venerus è un elemento fondamentale della mia musica, di tutta la musica che ho fatto da quando ci siamo conosciuti. Come io della sua, credo di poter dire. È stata un’alchimia istantanea da quando ci siamo conosciuti, umana, di pensiero, di estrema connessione. E di gusto musicale. Io penso sia l’artista più figo che ci sia in Italia, senza dubbio. E quando ho visto che insieme funzionavamo così tanto, e sono stato da lui a Roma, gli ho proposto immediatamente di venire a Milano, l’ho tirato in mezzo in tutto quello che mi proponevano, gli ho dato studio, chiavi, è stato istantaneo, è la mia controparte ed è essenziale che ci sia. Nel disco canta in quattro pezzi ma ha messo le mani su due terzi dell’album, che sia scrittura, produzione, arrangiamenti, chitarre, tastiere… ed è la persona, l’unica, con cui mi sono confrontato passo passo su tutto il disco, prima ancora della label o degli amici più stretti. Per cui è davvero un pilastro per me. E poi è stata un’esperienza fortissima realizzare il mio e il suo disco quasi in contemporanea.

Com’è il suo disco?
Posso dirti che rispetto al mio è un feeling molto diverso per l’ascoltatore, però è molto importante che i due album escano quasi in contemporanea, perchè è un messaggio chiaro, è un segnale forte nel panorama musicale italiano del 2021.

Un panorama che è cambiato molto in pochi anni. Dieci anni fa un disco avanti per il pop italiano poteva essere ‘Ora’ di Jovanotti, un disco con tanta dance e tanta elettronica dentro ma comunque figlio di un artista già grande, adulto, con un peso enorme; il rap era ancora piuttosto ai margini, l’indie doveva sbocciare. Oggi quei semi sono fioriti, rap, trap e indie sono il pop, e la musica in Italia è radicalmente cambiata. Il 2021 è l’alba di un nuovo inzio?
Non lo so. Un appunto che faccio al tuo ragionamento è che i grandissimi nomi non vengono più i dischi di prima perché i dischi fisici non si vendono più e lo streaming premia gli artisti più giovani, per abitudini di ascolto. Però poi certe hit da numero uno sulle piattaforme restano lì, fanno milioni di click ma non entrano nell’immaginario collettivo come invece i pezzi dei grandi nomi consolidati. Viviamo un momento storico strano in cui c’è una realtà splittata tra chi guarda la TV e ascolta la radio e chi invece va di streaming e web. Però è vero che oggi anche i super big devono per forza rinnovarsi se vogliono restare rilevanti, non dettano più legge in tutto e per tutto, ecco. Forse questa è l’alba di cui parli.

 

Come tanti sei partito dalla dance. Com’è stato il tuo percorso? Come vedi la dance oggi?  È ancora interessante? Ha perso freschezza?
Innanzitutto i miei primi anni di carriera musicale sono legati all’hip hop. È stato il primo genere che ho prodotto, con La Crème. Poi sono venuti meno gli stimoli, e non mi andava di stare in un ambiente in cui il producer era completamente in ombra. Mi piace stare dietro le quinte, altrimenti non sarei un producer ma un frontman, ma amo avere comunque un mio output creativo. Quindi ho detto basta, volevo fare musica elettronica, senza cantato, senza voce, e fare il dj. In quel momento abbiamo iniziato Reset! come dj e come producer e lì c’era quella freschezza che vedevo nel rap anni prima. Era un momento magico in cui la house andava a braccetto con le “seghe elettriche” dei Justice o di Bloody Beetroots, c’era la fidget… insomma era divertente e si poteva esplorare tutto con grande libertà. Poi l’EDM ha incorporato tutto, non mi divertivo più, e un’altra volta ho preso un percorso diverso. Pensa che la prima volta che suonavo trap, ti parlo del 2012, per molti era uno shock. Qualcun altro invece capiva e vedevo che stava germogliando qualcosa di importante. Oggi nella musica elettronica, strumentale, trovo ancora le novità più interessanti, un sacco di idee. Four Tet, Jamie XX, Metro Boomin, sono fenomenali. È un mondo iper saturo ma comunque più creativo rispetto a quello black, per dire.

In un mondo iper saturo come fanno i nuovi arrivati a trovare uno spazio? Un tempo c’erano meno mezzi ma tantissime possibilità, molti spazi “vergini”. Oggi è il contrario, i mezzi sono enormi ma gli spazi sono davvero “tappati”. È più facile emergere oggi?
Sì, perché c’è molto più interesse intorno al ruolo del produttore, un tempo eri lo sfigato della filiera musicale, oggi grazie anche a personaggi come Charlie Charles o Sick Luke in Italia questa figura è assolutamente centrale. Sono stati bravi loro, va detto, non solo musicalmente ma anche nel gestire il proprio profilo di personaggi. E hanno avuto la fortuna di avere dei frontman che li hanno tirati in mezzo alla grande: Sfera è Sfera, ma proprio lui parla continuamente di Charlie e lo mette spesso al centro della scena, lo nomina, ne ha fatto il suo partner in crime al 100%. I linguaggi poi sono molto mescolati, il producer deve osare, vince chi è creativo e ha una visione personale. Young Miles o Tha Supreme a quindici anni facevano già cose spaventose, io prima dei venticinque non avevo prodotto nulla di rilevante, solo una lunga messa a fuoco. È vero che oggi hanno accesso a una tecnologia esagerata e semplice da utilizzare, ma sono bravi. Punto. Non è vero che tutto è già stato fatto e sentito. C’è sempre una novità. Bisogna intercettarla. Ovviamente però c’è molta più concorrenza e non ci sono più i filtri della discografia o dei trendsetter, i gatekeeper. Devi importi con il self-branding, parliamoci chiaro: a volte funzioni di più perché vieni meglio nei video o nelle foto, anche se sei un producer.

A proposito, tu sei uno di quelli che vengono bene nei video e nelle foto: hai un’estetica sempre più libera, ci conosciamo da tanto e ti ho visto passare dal total black con i capelli corti ordinati alla coda fluo e gli orecchini giganti. Lo dico perché mi sembra che questa tua esteriorità coincida con quella musicale, sempre maggiore, che ti sei guadagnato negli anni. Come la vivi questa libertà?
Conta tantissimo, hai detto la parola chiave: libertà. Crescendo prendi confidenza con i tuoi difetti e i tuoi pregi e impari a lasciarti andare. Il modo in cui ti presenti fuori riflette quello che ti succede dentro. Ti guardi e dici “io non sono più così” ed è il momento in cui ho deciso di essere un’esplosione di self expression. È una qustione di star bene con se stessi. Poi c’è quello che ti vede e dice “guarda sto coglione, ha quasi quarant’anni e gira con i capelli verdi”. Ma ok, mi va benissimo, è un filtro automatico che va bene a lui e a me, perché uno che mi guarda male se giro con lo smalto, sicuramente è uno con cui non voglio avere a che fare.

 

Quando hai vent’anni in famiglia ti dicono di evitare una carriera così precaria come quella del musicista, del dj, del producer; poi uno vede te che ne hai trentotto, hai successo, e fai letteralmente tutto ciò che ama fare. Cosa diresti al sedicenne che vuole farlo?
Fallo. Ma fallo fino in fondo. Credici, trova il tuo linguaggio. Ma ascoltati, e guardati allo specchio, crederci non significa incaponirsi. Se vedi che non sei all’altezza, lacia perdere. Non è una sconfitta. È una questione di onestà con se stessi. Io vengo da una famiglia con un padre artista, pittore, eppure hanno sempre cercato di farmi desistere, perché è una strada precaria. È anche vero che la generazione dei nostri genitori vedeva nella laurea la certezza di una migliore condizione professionale e sociale, oggi è un’equazione che non vale più, anzi siamo pieni di esempi di gente che ce la fa dando ascolto alla propria vocazione invece di seguire percorsi prestabiliti.

Hai mai avuto un momento in cui hai pensato “no, non ce la faccio, mollo tutto”?
No. Non potrei fare altro nella vita. Certo, ho spesso cambiato formula, posti, persone con cui lavorare. Serve reinventarsi, ma non potrei davvero fare altro.

Come avresti fatto questo disco cinque anni fa e come lo faresti tra cinque anni?
Ah non lo so, non sono bravo a profetizzare. Sicuramente il sampling, il soul, il rap sono la mia ossatura, sono elementi che ritorneranno sempre in qualche modo. Però magari sarebbe un album ambient, strumentale. Cinque anni fa invece era il momento in cui mi sono stufato di produrre la trap strumentale, perché era stata mangiata dall’EDM, quindi ero in un limbo e mi ero messo a fare strumentali da dare ai rapper, e ho fatto il beat di ‘Ho Paura  Di Uscire 2’ che è rimasta nel cassetto quasi quattro anni e poi invece è diventata una hit.

Sembra che ogni volta che un genere arrivi alle masse, tu fuggi e cerchi altro, quasi che scappi dal successo facile, visto che eri già lì da tempo. Come mai?
È la mia attitudine. Ne parlavamo all’inizio di questa intervista. Io non riesco a fare le cose a tavolino, cercate, pianificate. Mi vengono male. Seguo il mio istinto e mi rendo conto che spesso sono scappato da situazioni in cui avrei raccolto grandi risultati in modo relativamente facile, ma non ci posso fare nulla, non mi viene. Non ho la smania della hit, ho la smania di fare cose che amo e di essere libero. E non ci penso troppo. Poi, oh, fortunatamente le hit mi sono venute, non dico che le rimbalzo per scelta.

 

 

 

 

 

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Albi Scotti
Giornalista di DJ Mag Italia e responsabile dei contenuti web della rivista. DJ. Speaker e autore radiofonico.

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