Sgombriamo ogni dubbio fin dal titolo. Anzi, andiamo subito oltre: mainstream e underground sono due termini che ormai significano molto poco, vengono utilizzati più per convenzione che per reale significato. E tuttavia esiste oggi più che mai una musica che nasce con precisi obiettivi mainstream, con la volontà e la strategia di arrivare in cima alle classifiche, di essere passata in alta rotazione dalle radio, di essere in evidenza nei servizi di streaming e di essere facile da utlizzare nelle sincronizzazioni crossmediali (spot, film, serie, videogames). Una vera catena di montaggio della creatività, in cui ciascuno ha il proprio ruolo: autori, liricisti, beatmaker, producer, topliner, artisti. Tutto ciò che i puristi della musica odiano, innamorati forse più dell’idea romantica del genio di stampo wagneriano che tutto immagina, crea, scrive, che non della bontà della musica stessa. Di sicuro, il meccanismo della musica contemporanea ha perso un bel po’ di spontaneità, perché in molti casi sentiamo artisti cambiare suono con l’aria che tira, collaborare strategicamente con la voce giusta o il produttore del momento manco fosse una partita di Risiko. E poi i software e i tutorial, uno sviluppo tecnologico che negli ultimi cinque-sei anni ha portato a una semplicità di utilizzo impressionante, dando davvero a chiunque abbia un po’ di talento la grande chance della vita. In questo panorama omologato e appiattito, la scena underground (termine di comodo con cui indico tutto-ciò-che-suona-nuovo-e-diverso-dal-solito) dovrebbe essere una fucina di novità, come è fisiologico che sia. Esiste qualcosa che ha successo, diventa popolare, quindi si fa standard del gusto e ripetizione, formula, cliché. E allora qualcun altro si annoia e cerca di fare qualcos’altro, che poi a sua volta genera un’idea forte, in grado di fare breccia nel sentimento comune, e così via. Si tratta di cicli.
Ma la velocità a cui ci costringe il web ha distrutto questi cicli, ha accorciato i tempi di riproduzione e sballato le fasi biologiche, per usare un paragone scientifico. Oggi quando qualcosa ha successo, ci sono termometri molto precisi a comunicarcelo: i numeri di Spotify, di Soundcloud, di YouTube. I like e le condivisioni social. Così accade che il producer da cameretta venga notato e portato in studio dalla star nel giro di sei mesi, e dopo altri sei mesi o è a sua volta una star oppure è già finito. In questo clima non è semplice fare in modo che si sviluppino quelle scene, quelle comunità che sono le fondamenta di ogni trend musicale e poi discografico dalle radici forti, in grado di connotarsi in un proprio bacino d’utenza, di dotarsi di schemi e tratti ben precisi prima di uscire dal bozzolo e conquistare il mondo. Penso a rivoluzioni importanti come la house, il punk o il rap, ma anche a generi che hanno conosciuto un’ascesa e sono poi sfioriti o si sono evoluti e trasformati, come il dubstep, il trip hop, l’acid jazz, il two step, la mediterranean progressive. Oggi scene come quelle future bass o trap vengono fagocitate e inglobate nel DNA del pop in capo a qualche mese o di un paio di stagioni. La nuova scena house è passata dai primi vagiti dei Disclosure al successo degli stessi fratelli Lawrence, dei Gorgon City, fino a divenire l’ossatura per produzioni pop come nel caso del nuovo disco di Katy Perry. Addirittura una comunità fortemente connotata e piuttosto chiusa come quella del grime britannico ha faticato a riesistere a certe lusinghe. Quando pensiamo a Major Lazer, agli ultimi lavori di Justin Bieber o al nuovissimo singolo di David Guetta, non possiamo fare a meno di considerarli delle super produzioni pop, ma al tempo stesso saremmo disonesti se non ammettessimo che suonano comunque molto più freschi e ancora in qualche modo underground rispetto allo standard del pop radiofonico “tradizionale”. Che cosa sta succedendo?
Molte cose. Molti fattori che stanno trasformando la mappa della musica, anzi proprio la sua morfologia. Mainstream is the new Underground è un titolo ironico e un filo irriverente e provocatorio, ma tutto sommato è vero. Dietro le grandi produzioni mainstream ci sono spesso dei team di lavoro in cui a fianco dell’hitmaker di turno (Max Martin, Dr. Luke, Pharrell Williams, Nile Rodgers) ci sono giovani talenti come Cashmere Cat, Lido, Flume, Ackeejuice Rockers (per citare una coppia di italiani). Un lavoro d’equipe in cui ciascuno porta una propria visione e opera su un segmento del lavoro. È in questo modo che personaggi come Skrillex o Diplo sono diventati i giganti che sono oggi: buone idee, scelta intelligente dei collaboratori (che magari sanno mixare o rifinire un brano meglio di loro), capacità strategiche. In un brano dei Beatles c’erano due autori, in uno di Beyoncé ce ne sono una dozzina. Se poi le canzoni di B. saranno immortali come quelle di Lennon e McCartney ce lo dirà il tempo; intanto, oggi spaccano e sono delle figate, suonano bene, non sono stantie e spesso, anzi, i singoli di artisti bestseller sono più azzardati di molti nuovi arrivati sulla scena. Parlavo poco fa del disco di Katy Perry. Beh, che si può dire? È un signor album. Fosse uscito a nome di Solange o di Kelela o di Banks sarebbe già osannato senza riserve anche dalla fazione underground. Il fatto è che tutti noi abbiamo delle categorie mentali, dei muri, delle scatole in testa. E viviamo sotto la nostra bandiera, perciò se siamo strenui difensori del “nuovo” (o magari siamo convinti di esserlo) difficilmente endorseremo (scusate) Katy Perry, che ha fatto un ottimo album e ha fuori un singolo che suona house molto credibile e con un sample preso da Roland Clark in apertura (quel “What da fuck”a sua volta reso famoso ai più da Fatboy Slim). A questo punto so che molti di voi stanno pensando: “ok, stai costruendo un discorso ben ponderato per difendere la musica più commerciale e fare un po’ di sensazione sul fatto che non ci sono più novità e che l’underground è morto, bel giochino”. Tranquilli, non è così.
Le novità esistono sempre e le rivoluzioni nascono quando meno ce lo aspettiamo, le idee destinate a spaccare in futuro sono già in giro da qualche parte, fidatevi. Ma ciò che fisiologicamente trovo anomalo in questi ultimi anni è il ribaltamento dei ruoli e del gioco delle parti: il sistema mainstream spesso spinge di più sulle novità di quanto non faccia il mondo underground, che pare quasi, in tanti casi, conservatore. Gli artisti famosi spingono e si attaccano con entusiasmo a tutto ciò che è nuovo, e porta linfa vitale alla musica, mentre laddove vorrei sentire delle cose davvero spiazzanti non trovo questa sorpresa. Ciò non significa che le novità non esistano. Anzi. Ce ne sono e di buonissime. Ieri ho passato il pomeriggio insieme a Egyptrixx, artista canadese nato con la bass music nel decennio scorso e che ha deciso di dedicarsi a una ricerca sempre più estrema nel mondo ambient (passatemi il termine di comodo) e dintorni. E mi parlava serenamente di come ami far respirare i suoi brani, senza sentire l’esigenza di tempi radiofonici, giri furbi e di tutti quei ragionamenti che hanno reso la musica una faccenda da architetti o designer. Lui non vuole funzionare, fa la sua cosa e gode così. La stessa attitudine che trovo ad esempio in un festival come Terraforma, che andrà in scena di qui a poche settimane a Milano: sostenibilità, installazioni artistiche, line up che non cerca per forza nomi di richiamo ma solo coerenza nella proposta. Amo molto questo modo di ragionare, ma mi rendo conto che forse porta in seno un’autoreferenzialità destinata a tenere costantemente “a numero chiuso” esperienze di questo genere. E qui il mio punto di vista è differente, o perlomeno il mio punto di vista rispetto a ciò che ho sempre associato al termine underground, sottoterra. Quel fremito, quella spinta, quella pulsione che all’inizio è sì sotterranea, ma poi sbotta e vuole emergere con prepotenza. Come dicevo all’inizio.
Mi viene in mente il decennio scorso, la fidget, l’electro, quella scena che arrivò come un tornado a spazzare via un modo di intendere la musica da club e le sue abitudini ormai stagnanti. E poi evolutasi fino ai grandi festival di oggi. Penso allora ai semi che stanno gettando artisti come Giorgia Angiuli, DJ Nan Kolé, Lorenzo BITW; come Not FOr Us, Marble, Kende. Che non stanno proponendo rivoluzioni in termini assoluti, ma stanno facendo un ottimo refresh di musica e di immaginario in un mondo che sta omologando verso l’alto tutto quanto, girando velocissimo e risucchiando tutto nella grande vetrina del mainstream. E a me piace molto, sono felice che i dischi più suonati e più streamati siano delle figate ben prodotte. Ma è anche vero che senza contrasti e attriti si rischia di perdere il senso della sfida, del combattimento, dell’agonismo, che ha sempre portato buonissimi frutti, alla costante ricerca di una scoperta mai sentita.
Mainstream is the new underground, grazie o a causa di internet. Godiamoci questo tempo meraviglioso e surfiamoci. Ricordiamoci però che per surfare bisogna saper cavalcare le onde.
13.06.2017