Avete presente la parola hype? Quell’interesse esagerato, pazzesco, sovraccarico, che si crea intorno a qualcosa? Ecco, il concerto di Major Lazer ieri al Fabrique di Milano era l’incarnazione di tutto questo. Pubblicizzato da mesi, sold out annunciato, gente che telefonava ovunque per un accredito, un pass, un biglietto a prezzi folli all’ultimo secondo. D’altronde, il progettone di Diplo e soci ha sfornato la hit dell’anno e un album di pop esotico dove tutto sembra dosato da un chimico degno del Nobel: EDM, reggae, featuring di lusso, lentoni e pezzi da ballare. Fosse il ’94, la chiameremmo world music. Invece sono gli anni ’10 e diamo il loro nome alle cose: è un clash divertente, caciarone il giusto. E ci piace tanto. Ma un live così atteso crea aspettative molto alte.
Com’è andata?
Questa mattina erano decine (non scherzo) i messaggi sul telefono e su Facebook in cui mi si chiedeva un parere sullo show del trio jamaicamericano (occhio al neologismo!). Ora ve lo racconto, mettetevi comodi. Il locale era pieno da scoppiare, l’atmosfera carichissima e la vibe sicuramente “giusta”. Non starò certo qui a lamentarmi, come ho letto altrove, per la ressa o perchè molti dei presenti hanno scoperto Major Lazer tre mesi fa alla radio. I primi remix di Diplo li compravo in vinile nel 2004; ai tempi di MySpace ci scrivevamo pure e ho in giro qualche mail scambiata con lui, ma questo non mi dà certo il diritto di prelazione su un fan dell’ultima ora. Il “random white guy from Florida” sale sul palco insieme ai compari Jillionaire e Walshy Fire dopo la debole apertura di Elliphant, bella come una dea vichinga ma davvero povera di carisma (e di voce).

I tre invece partono a mille, cassa dritta, potente, tanto fumo sparato, tanti salti e “yo Milano what’s up?!?!?!?!” subito in faccia. Dopo qualche minuto arriva la tromba di “Bumaye”, ma subito il “puuuull uuuup” smorza il pezzo, e dovremo aspettare un bel po’ prima di sentirla sganciata come una bomba sulla folla. Nel frattempo, è un frullatore inesorabile di sample, tracce firmate Lazer e pezzi di altri (il remix di A-Trak su Yeah Yeah Yeahs e altri memorabilia tra fidget, electro e EDM). Il tutto con la costante del cassone dritto, roba che sembra di stare al Number One, teletrasportato da Rovato a Kingston. Anche le cose più tranquille come “Lean On” (giustamente arriva quasi in chiusura) e “Get free” (una canzone dalla bellezza commovente) vengono affogate negli edit carichi di spinta che omologano lo show per tutti i 90 minuti. Diplo, Jillio e Walshy, dal canto loro, sono ottimi entertainer e il pubblico risponde caloroso agli input: tutti giù per terra, via le t-shirt, su le mani. Il Fabrique è una gigantesca dancehall resa commestibile a tutti dai 4/4. Divertente? Molto. Villaggio turistico? Abbastanza. Echi di ginnastica a bordo piscina e di Fiorello primi ’90 (“Con le mani! Con i piedi!”) affiorano prepotenti nella memoria. Un punto basso che non ci si può esimere dal menzionare è quando parte “Sciamu a ballare” dei Sud Sound System. Con tutto il rispetto per i Sud Sound e tutta l’estetica del Salento: ci si sente un po’ presi per il culo.

L’eterna lotta del fumo con l’arrosto
Una frase che può essere il riassunto dello show, anche se so che verrà fraintesa. Diplo, da re degli sgamati quale è, ha capito benissimo una cosa: in questo momento uno spettacolo dove spari migliaia di coriandoli, salti sulla consolle, agiti la folla e fai sgambettare le ballerine (e che ballerine! tanto fiato e presenza scenica a mille) ti permette di divertire il pubblico, essere trasversale e sempre contemporaneo, abbattere i costi (la produzione non era esagerata nemmeno nelle scenografie: qualche schermo e un po’ di luci). I presenti hanno perlopiù apprezzato. Si è ballato, saltato, sudato. Ma se le aspettative sono alte, è innegabile che un po’ di delusione rimane: portare in tour almeno un paio di voci per qualche pezzo davvero live è doveroso, a mio parere. Dà calore e profondità a tutto il concerto. Che i fuochi d’artificio sono belli, ma quando si diradano, le stelle lo sono ancora di più. Insomma, le cose funzionano ma l’asticella non si è alzata. Diplo ha trasformato un progetto nato come un interessantissimo esperimento tra culture e grammatiche musicali differenti, unite da un medesimo approccio, in una macchina ben oliata, organizzatissima, capace di macinare palchi, miglia e tanti soldi. E non c’è nulla di male in questo, intendiamoci. Come detto sopra, il pubblico si è divertito e ha risposto con entusiasmo. La domanda che mi frulla in testa è la solita: come sarebbe Major Lazer oggi senza l’abbandono di Switch?
Menzione (e gallery a parte) per l’afterparty ai Magazzini Generali, dove pare che Diplo abbia infuocato la pista con il suo dj set. Al nostro uomo va riconosciuta la qualitò di essere infaticabile e di essere un aggregatore incredibile. Io, invece, sento gli acciacchi dell’età e ho mollato dopo il main event. Sarà per la prossima, Wes!
Foto credits. GOers
21.10.2015