• LUNEDì 05 GIUGNO 2023
Interviste

La meravigliosa storia di Marta Salogni, producer e sound engineer di successo a Londra

È una delle più apprezzate sound engineer sulla piazza, al lavoro con Björk, Dave Gahan, Bon Iver e molti altri. Marta Salogni ci ha raccontato la sua storia tra successi e difficoltà

Dalla provincia al centro del mondo, in cerca di fortuna. Un classico, un cliché, un luogo comune, quasi. Da Brescia a Londra, per diventare sound engineer, per lavorare con la musica, per diventare una personalità del mixer e dello studio di registrazione.
Marta Salogni è la protagonista di questa storia, tanto comune quanto speciale. Speciale perché non chiunque ci provi ce la fa. Perché un conto è dirlo, un altro è farlo. E poi, speciale perché spesso si raccontano solo i successi, si snocciolano i nomi giganti di superstar con cui una persona così ha lavorato. Ma mai i sacrifici, la gavetta, i compromessi, i sogni e le aspirazioni che sbattono contro la realtà.
Marta Salogni è una success story perché mixa i dischi di Björk e Dave Gahan dei Depeche Mode, certo. Ma anche perché non lascia da parte gli esordi umili, quelli di tutti noi: i lavori da galoppina che porta il tè o il centro sociale di Brescia dove ha scoperto il grande amore della sua vita. La musica.
Questa intervista racconta questo e molto altro. E soprattutto, mette sul tavolo alcuni temi intriganti per chi è appassionato, divertenti per chi legge ed essenziali per le giovani lettrici e i giovani lettori che hanno un sogno e non hanno ancora deciso se metterci tutto il proprio impegno per realizzarlo. Ecco, per voi, è una lettura illuminante.

 

Ci racconti la tua storia e come sei arrivata a fare la sound engineer a Londra partendo a Brescia?
Ho iniziato a Brescia con i live quando ero adolescente. Io vengo dalla provincia, e alle superiori ho cominciato a frequentare il Magazzino 47, il centro sociale di Brescia, e la sede di Radio Onda D’Urto. Ho cominciato frequentandoli come attivista; poi un pomeriggio sono andata nel retro del palco, conta che l’arena per i concerti era un tendone con delle casse fai da te e un vecchio grande mixer. Ne sono subito rimasta affascinata, era il simbolo di qualcosa che riusciva a controllare il suono attraverso l’ingegneria, e questo mi colpiva perché era come dare forma al suono, all’impalpabile, così ho chiesto qualche informazione e mi hanno introdotto a Carlo Dall’Asta.

Chi è Carlo Dall’Asta?
La persona che si occupava della regia di quei concerti e dell’impianto. Con molta pazienza mi ha preso sotto la sua ala e mi ha insegnato i rudimenti e le tecniche del mestiere, dal microfono ai componenti, al cablaggio, tutto. È stato il mio primo role model, gli devo moltissimo. Ogni sabato finite le lezioni andavo al Magazzino 47 e al suo fianco facevo il set del palco per i concerti della sera. Così dai sedici anni in poi stavo lì. Quando non avevo la patente andavo via prima dei concerti, perché non avevo il passaggio per il ritorno e si faceva troppo tardi, pensa la frustrazione, preparare tutto e poi non poter sentire il risultato del mio lavoro! Più tardi ho fatto anche i concerti, Carlo è stato molto generoso. Dal Magazzino ogni agosto ci spostavamo alla festa della radio ed ero il tecnico di uno dei palchi, è stata la mia prima esperienza di una certa responsabilità.

E poi?
Dopo la maturità cosa si fa? O l’università in Italia o si va in un’altra nazione. Il mio desiderio era quello di lavorare in studio, Carlo mi ha detto “perché non vai a Londra o a Berlino? Gli studi importanti sono lì”. Ci ho pensato per un paio di giorni e poi ho deciso che sarei partita per Londra appena usciti i risultati degli esami. A ottobre 2010 sono arrivata a Londra e gli obiettivi erano imparare la lingua e iniziare entro il gennaio successivo un corso da tecnico del suono. Non c’era un piano B.

 

Così hai frequentato un corso specializzato?
Esatto. Finito il corso ho trovato un lavoro alla svelta, perché Londra è una città costosa e non mi potevo permettere di stare con le mani in mano. Facevo post-produzione, cioè preparavo tè e caffè, ma mi cimentavo con lavori di sound design e affiancavo chi mixava film e documentari. Il primo anno ho imparato a mixare con Pro Tools e a gestire il suono come sound designer, tutta gavetta che mi ha aiutato in quello che faccio adesso. Ma dopo quell’anno mi mancava la musica, la ragione per cui ero andata lì. Nel tempo libero dal lavoro andavo a cercare altri lavori in altri studi, l’ho fatto in tutti i modi: lettere, mail, telefonate, finché da uno studio mi hanno risposto dicendomi “non abbiamo posti di lavoro ma ti facciamo vedere gli studi” e così mi sono presentata.

Come si chiamava lo studio?
Si chiamava State Of The Ark, era il 2011 e fu il primo studio in cui ebbi modo di occuparmi di qualcosa di concretamente musicale. Ci registrava Neil Young, per dire… avevano un banco degli anni ’50, ’60, per me una macchina incredibile.

Ti ricordi la tua prima session lì?
È stata una cosa tipo “non ci serve niente, ma se vuoi venire a pulire i cavi e a fare manutenzione…”.

Potevi tranquillamente dire “no grazie”, tanti ragazzi si sentirebbero un po’ umiliati da una frase così. Invece?
Invece no, da cosa nasce cosa. Bisogna essere pronti a fare ciò che serve senza credersela, specialmente in un mondo e in una città competitivi in cui ancora non si è dimostrato nulla.

A proposito: che consigli che daresti ai ragazzi e ragazze che leggono un’intervista come questa e vogliono fare il tuo lavoro?
Proprio questo: non demordere, rendersi conto che ogni lavoro che facciamo lascia un segno. Fare bene anche i lavori umili, ricordarsi quanto zucchero vuole un artista nel caffè. Sembra una stupidaggine, ma se non sai fargli bene un caffè come puoi mixargli il disco? Si tratta di attenzione, di cura, di volontà di fare qualsiasi cosa al meglio. Vale per i lavori da garzone di bottega e vale quando a capo di uno studio e produci o mixi dischi di livello internazionale. L’attitudine fa la differenza. Sempre.

 

Oggi hai un tuo studio? Quando hai capito che potevi farlo?
Sì, oggi ho un mio studio a London Fields, l’ho chiamato Studio Zona. È stato assemblato e progettato da me dopo anni di peregrinazioni e spostamenti vari nei quali mi ero accorta di avere bisogno di un headquarter da poter definire mio, dato che sempre più artisti chiedevano mixaggi e produzioni direttamente a me. Prima di aprire questo studio ho lavorato molto con David Wrench, che per me e’ stato un secondo Carlo dall’Asta. Grazie al suo supporto mi sono imbarcata nei primi progetti da libera professionista e da lì la mia carriera è avanzata passo per passo.

Come hai conosciuto David?
In una session a cui stavo lavorando è entrato lui e mi sono sentita affine da subito, avevamo la stessa visione, mi ha insegnato i suoi metodi, e quando non poteva prendere dei lavori mi dava delle reference e me li passava. Lì ho avuto i primi crediti di produzione e di mix. Quando poi stavo lavorando su un disco dei Goldfrapp mi sono resa conto ricevevo tante richieste e a quel punto ho preso in mano lo studio nella casa discografica Mute, che è stato il mio primo studio in proprio prima di quello attuale.

La tua qualifica, leggo in giro per il web, è “producer engineer”. Che cosa significa di preciso? Ti occupi soltanto del mix o anche della produzione?
Mi occupo di produzione e mix, ma e dovessi dirti cosa preferisco… direi… entrambi. Anzi, guarda, ti potrei rispondere che è una domanda ‘senza senso’ ma per me ha molto senso invece rispondere proprio “entrambi”, è ciò che ho sempre fatto fin dall’inizio, soprattutto per quelle band che non potevano permettersi di avere producer e mixer separati. Mi spiego: sono due aspetti diversi del mio lavoro, entrambi affascinanti. Diciamo che se produco ho già in mente il mix, cioè nel momento in cui lavoro alla fase di produzione di un brano o di un album, penso immediatamente a come lo mixerei, a cosa tenderei ad accentuare, a quali strumenti dare una voce più forte o che tipo di suono e spazio. Cerco di configurare già tutto nella mia testa.

Come lavori?
La prima cosa è chiedere all’artista di sentire il disco, in qualsiasi stato del lavoro sia, così mi faccio un’idea e capisco quale può essere il mio apporto, cosa posso portare al disco. Se mi chiedi anche solo un’opinione, ti do un’opinione. E poi immagino il mix, l’atmosfera, lo spazio, i bassi, le automazioni. Mi configuro un mix nella mia testa e con una sua coerenza. Io mixo con Pro Tools su un banco analogico, quindi si tratta di un modus operandi ibrido, che tenta di far emergere il meglio da entrambi i metodi. Chiedo al cliente un riferimento per capire come procedere da quel punto in poi e vedere dove sto andando. E chiedo quali sono le ispirazioni e i riferimenti dell’artista per quel lavoro, così da farmi una mappatura e dirmi delle coordinate. Ci lavoro e ogni tot arrivo al punto di chiedere un feedback fino a quando non siamo soddisfatti e tutto suona esattamente come desiderato.

Fino a qualche anno fa Londra era la Mecca per chi voleva lavorare nel music business, artisti, tecnici o addetti ai lavori. Oggi il mondo e la situazione generale hanno sicuramente decentralizzato questa visione, anche se credo che resti indiscutibilmente una delle capitali mondiali della musica. Come si lavora in UK?
Per me Londra è un pezzo di cuore, è la prima città che mi ha dato tanto a livello professionale, anche se, come giustamente dici, con le tecnologie che rendono tutto più accessibile a tutti, diciamo che oggi è più facile decentralizzare il lavoro, “farcela” anche se non vivi nella capitale europea della musica. Grazie alla tecnologia, ai social, alla comunicazione, ci possiamo informare e sapere che ci sono ingegneri bravissimi/e ovunque, non solo qui, non solo nel centro del mondo. Ci sono persone fenomenali che si sono costruite una carriera brillante e di successo nonostante non siano ubicate in un luogo strategico per questo tipo di attività, per esempio. L’altro lato della medaglia è che comunque la convergenza di artisti, case discografiche, manager passa sempre da qui. Lockdown a parte, ovviamente.

Andresti via da Londra?
Non credo, perché qui mi sono costruita una realtà che è la mia quotidianità, quindi no. Però ti confesso che un secondo studio sul lago d’Iseo, dove sono cresciuta, è un mio sogno. Una sorta di spin-off, di realtà speculare, no? Da una parte Londra, gli spazi vitali ridotti, i milioni di persone, che comunque amo e sento appartenermi; dall’altro, un luogo tranquillo e immoto, dove lavorare con uno spirito diverso, ma simile.

Mi pare di capire che sei ancora molto legata ai tuoi luoghi e che hai un ricordo sereno e grato dell’Italia. Però sei diventata una professionista stimata e rispettata a livello internazionale grazie al tuo lavoro a Londra. Che rapporto hai con l’industria e con gli artisti italiani?
Ho lavorato con i Subsonica due anni fa per il loro ultimo album, mi piacerebbe lavorare con più artisti italiani, sono cresciuta con Verdena, Afterhours, Massimo Volume… quella è stata la mia formazione da ascoltatrice, e poi naturalmente anche come tecnica del suono al Magazzino 47. A volte ho dei contatti con le etichette e con gli artisti italiani, però ovviamente vivendo qui il mio lavoro è molto più focalizzato su artisti britannici o internazionali che vengono in città per i loro dischi.

 

Domanda per me molto spigolosa e delicata, spero di porla nel modo giusto: non è raro vedere donne cantanti, dj, e anche producer, manager, addette stampa, discografiche. È più raro invece vedere donne sound engineer. Perché, secondo te?
Credo sia proprio una mentalità, la figura maschile è storicamente legata alle professioni più tecniche, mancano i role model, e di conseguenza diventa raro che tante donne si appassionino e creino una “legacy”, un tramandare il ruolo. Poi per quanto noi, intendo gente come me o come te, viviamo in una bolla in cui si parli tanto di parità di genere, il mondo reale è ancorato a una certa tradizione molto patriarcale. Nelle pubblicità restano i cliché della donna che svolge i lavori di casa. È un po’ la gerarchia del patriarcato, i CEO delle discografiche sono quasi sempre uomini, bianchi, over 40, spesso over 50, quindi c’è una barriera molto forte. Ma ogni anno vedo che ci sono più donne anche nel mio lavoro, quando sono arrivata io ne conoscevo due in tutta Londra. Londra, capisci? Milioni di persone, due donne sound engineer. Renditi conto. E parliamo di una decina d’anni fa, mica quaranta. Ma adesso le cose cambiano anche grazie a quello che vedono. Scuole, opportunità, meno taboo anche solo psicologici. Vedono dei role model e pensano che sì, è possibile, si può fare.

Hai detto spesso “role model” in questa intervista. È bello che tu lo dica, che usci questo termine, sia nel senso di “mentore” sia nel senso di “guida”.
È quasi un dovere da portare avanti verso la società. Per me significa anche “prendersi cura”, è quello che mi ha insegnato la mia esperienza di vita e di lavoro. È un ruolo essenziale in una società sana.

Degli innumerevoli artisti con cui hai lavorato, quali sono quelli con cui hai più feeling?
Beh tanti, un sacco… è stato un onore lavorare con Alessandro Cortini per esempio. Ho lavorato con lui sulla realizzazione dell’album ‘Illusion Of Time’ con Daniel Avery. Björk, Holly Herndon… con gli artisti con cui lavoro spero sempre di costruire una relazione che vada avanti negli anni, non mi aspetto che tornino per forza da me ma ci spero, è un’esperienza che non si esaurisce soltanto nel momento in cui eseguo un mix. È conoscersi meglio, è condividere qualcosa di molto importante per entrambi, perché nella musica c’è un gran pezzo di vita, di emozioni, di sentimenti forti.

Artisti con cui sogni di lavorare?
Mina è il primo nome che mi viene in mente, a caldo. Moor Mother. Collaborare con Anhoni sarebbe fantastico. Lavorare con Ennio Morricone era un mio grande sogno.

 

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Albi Scotti
Giornalista di DJ Mag Italia e responsabile dei contenuti web della rivista. DJ. Speaker e autore radiofonico.

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