Foto: Daniele Di Chiara
“Un artista che trova equilibrio tra rock ed elettronica”. Così viene introdotto Nek alla prima serata del 69esimo Festival della Canzone Italiana di Sanremo, lo scorso martedì su Rai 1. Una presentazione che fa sorridere chiunque di noi abbia a che fare con la musica elettronica (forse anche rock), con tutto il rispetto per Nek e la sua carriera, lunga e ricca di successi. Ma non basta l’arrangiamento EDM di ‘Fatti Avanti Amore’ (Sanremo 2015) a farne “un artista che trova equilibrio tra rock ed elettronica”. Per ironia della sorte, proprio durante la settimana del festival arriva in Italia la band che probabilmente più di chiunque altro ha trovato il perfetto equilibrio tra rock ed elettronica. I Massive Attack sono un feticcio e un’icona (un termine che uso centellinato, solo quando davvero lo ritengo necessario) per diverse generazioni. Soprattutto per molti dj, nonostante la loro musica non sia mai stata da dancefloor. Tuttavia, dall’utilizzo del sampling nei primi dischi fino al raffinato equilibrio – appunto – tra canzone, beatmaking, chitarre distorte e ibridazioni di generi del capolavoro assoluto ‘Mezzanine’, il sound dei Massive Attack ha affascinato e conquistato tantissimi appassionati di musica, elettronica e non.
Proprio ‘Mezzanine’ è l’album che viene celebrato nel tour che ha toccato ieri Milano e si appresta ad arrivare anche a Roma (venerdì 8 febbraio) e Padova (sabato 9). E “celebrare” è il termine più azzeccato per descrivere questo concerto. Perché ‘Mezzanine’ viene suonato nella sua interezza, e perché le altre canzoni in scaletta sono delle cover molto particolari, sono infatti i pezzi che in ‘Mezzanine’ sono campionati, da The Cure ai Velvet Underground fino a Horace Andy, che poi è di fatto un membro effettivo del collettivo di Bristol fin dall’inizio. Si parte quindi con ‘I Found A Reason’ dei Velvet Underground, segue ‘Risingson’ e una scaletta che riordina in un crescendo trionfale la tracklist dell’album del 1998. È bene soffermarsi sulle cover, perché portano in scena dei Massive Attack inediti, in cui tutti gli elementi black scompaiono e dove emerge forte quel formidabile periodo a cavallo tra gli anni ’70 e i primi ’80, tra il punk e la new wave nella sua accezione primigenia. ‘10.15 Saturday Night’ dei Cure è uno spasso. ‘Rockwork’ degli Ultravox è un divertissement; i Bauhaus di ‘Bela Lugosi’s Dead’ un omaggio. È una celebrazione di un disco di vent’anni fa che celebra delle ispirazioni di venti anni prima. È un lungo racconto a ritroso nel tempo. Ma poi arrivano i pezzi forti, quelli per cui il pubblico ha riempito il Forum di Milano.
‘Black Milk’, ‘Dissolved Girl’, ‘Inertia Creeps’ sono al massimo, sono suonate con cura e potenza sonora come da tempo non si sentivano nei live della band, che pure ha mediamente tenuto un livello altissimo nei numerosi tour di questi anni. Ma qui è un’altra storia. Si sente il peso della storia, della loro storia, e tutto gira alla perfezione. Non viene nemmeno voglia di prendere il telefono per fare le Stories. Pochissime luci arrivano dagli schermi tra il pubblico.
Un ruolo fondamentale, una costante dei tour dei MA, è l’apparato visual e il light design. Dopo la lunga collaborazione con gli UVA, il tour di ‘Mezzanine XXI’ è affidato ad Adam Curtis, regista e documentarista britannico che con 3D e Daddy G condivide l’amore per una narrazione distopica, disturbante, a tratti macabra nel suo crudo realismo. Curtis ci sbatte in faccia Britney Spears che perde la memory card della sua fotocamera in filmati di repertorio dei primi anni ’00 e subito dopo scarta su Saddam Hussein e arriva fino alle immagini della guerra, delle bombe che esplodono in mezzo al deserto – molto, molto forti – durante la dolcissima e significativa cover di ‘Where Have All The Flowers Gone’ di Pete Seeger, cantata dalla voce eterea di Elizabeth Fraser. Un pugno nello stomaco, uno stordimento emotivo e sensoriale raro. A Proposito di Liz Fraser, la cantante dei Cocteau Twins e della storica ‘Teardrop’ torna in tour con Del Naja e soci, e ovviamente il palazzetto è tutto per lei quando arriva il momento del classicone, che arriva subito dopo ‘Angel’ e in chiusura di concerto, appena prima della “solito” finale con ‘Group Four’, probabilmente il brano di chiusura migliore nella storia delle chiusure dei concerti. Neanche Strauss regge il confronto. Tra le due, c’è lo spazio per una spiazzante ‘Levels’ di Avicii, mandata su immagini di guerre e devastazioni assortite. Puro simbolismo e niente retorica.
Al netto della cronaca di uno show che, come da promessa, celebra e racconta un album storico, il concerto è intenso e mette in scena una carica emotiva che pochissime volte percepiamo in un periodo dove sembra difficile andare in profondità alle cose (nella musica e nella “vita pubblica” in generale), dove si preferisce giocare sempre in modo blando e leggero con il pubblico evitando tematiche ingombranti e controverse. Ma Robert Del Naja (inutile girarci intorno, il leader e la mente è lui) è da sempre sul versante opposto: ci sono Trump e Putin, ci sono le guerre, c’è un lungo racconto sull’evoluzione tecnologica, su come ci stia mangiando la vita e su come ci abbia ormai ridotti a macchine da consenso, in banche dati viventi. Più che distopia, è presa di coscienza. Non è del tutto pessimista, ma è fortemente disturbante, proprio perché in un momento di svago ci obbliga a fare i conti con il nostro stile di vita, con la “bolla di piacere” dentro cui stiamo al calduccio e fuori dalla quale si muore con molta più facilità di quanto non ci facciano vedere le nostre notifiche Instagram. Britney e Avicii, le bombe e i filmati di YouTube. Con le luci a interferire con ciò che vediamo nel maxischermo, per accentuare le sensazione di fastidio e straniamento. E sotto, ‘Dissolved Girl’ o ‘Man Next Door’. Una liturgia.
Foto credits: Daniele Di Chiara
07.02.2019