Dodici minuti serrati al telefono con Max Casacci dei Subsonica e gli “errori generativi” di una band che non si stanca mai di fare, girare, produrre. Samuel, Boosta, Ninja, Vicio e Max Casacci, a vent’anni dalla pubblicazione di ‘Microchip Emozionale’, lavoro che ha segnato in modo indelebile la scena musicale italiana, riavvolgono il filo della storia. Lo hanno fatto recentemente con ‘Microchip Temporale’, sincera rielaborazione realizzata a più mani con la complicità di 14 artisti della nuova generazione, in qualche modo eredi dello spirito di quell’album così importante e capaci di dare prospettive nuove ai brani.
‘Microchip Temporale’ diventerà a marzo e aprile un tour nei club, un ritorno alle origini per il collettivo piemontese che mostra voglia di suonare e una certa irrequietezza per i sold out già annunciati. Nella nostra intervista il disco finisce sotto i riflettori: Max Casacci entra nel dettaglio come solo lui sa fare, con un linguaggio nobile, aulico, coinvolgente, a tratti distensivo. E racconta tutti i segreti, le collaborazioni, il processo creativo e tecnico con cui il Microchip, da Emozionale, è diventato… Temporale.
Com’è nato il progetto ‘Microchip Temporale’?
Con modalità differenti a seconda degli artisti coinvolti. Quelli territorialmente più vicini a noi abbiamo potuto coinvolgerli direttamente in studio, per ragionare sulle esigenze dei vari brani. Con altri invece abbiamo potuto solo scambiare file sonori perché impegnati tutti in diverse tournée.
A Milano, durante l’incontro con i fan, avete raccontato anche la storia delle basi e degli stems inviati per errore a probabili sconosciuti. Era una… boutade o la verità?
È una cosa vera, successa, il frutto di quello che stavo raccontando. Come detto, con molti abbiamo lavorato in remoto, soprattutto nella gestione dei brani che hanno avuto più cambiamenti, come ‘Strade’ e ‘Disco Labirinto’. ‘Strade’ è stata molto marchiata dallo stile di Coez e dal suo produttore; loro hanno iniziato ad arrangiare il pezzo nel loro studio e noi poi abbiamo rifatto batterie e chitarre le tastiere, così ci siamo un po’ rimpallati il lavoro in una sorta di ping-pong.
È una modalità atipica per voi, questa, non trovi?
È però in uso tra le nuove generazioni, tipo quelle che fanno rap dove i file partono e finiscono da un cellulare all’altro. Noi siamo più in un ambito analogico ma abbiamo imparato a confrontarci con le nuove generazioni.
In ‘Microchip Temporale’ noti un suono più organico, pop e definito a differenza dei vostri precedenti lavori?
Rispetto all’originale è più vero quello di ‘Microchip Temporale’, perché abbiamo risuonato brani che venti anni fa erano nati in studio fondamentalmente come veri esperimenti. Noi sperimentiamo sempre in studio e portiamo i brani nel live. Bene, vent’anni di ossigenazione sul palco hanno reso i pezzi più veri, più emozionanti, più caldi. Abbiamo risuonato tutto e abbiamo sostituito quelli che erano i risultati di un esperimento di studio con brani che avevano 20 anni di storia di palco. In alcuni casi simili agli originali ma e le batterie sono molto diverse, ci sono ad esempio dei crescendo che sono stati eliminati.
Quindi avete mantenuto ben poco dei brani originali?
No, degli originali niente. Sono tutti ricantati. ‘Aurora Sogna’ è una tonalità sopra e la voce di Samuel risulta un po’ più aggressiva.
Il processo di produzione con l’avvento del digitale per voi è cambiato fortemente?
Qualcosa è cambiato perché ‘Microchip Emozionale’ l’abbiamo fatto con l’Atari e un 24 piste. Passavamo tempo in studio io e Boosta (che eravamo i due uomini da studio e ora c’è anche Ninja) a guardare i nastri che si riavvolgevano e a caricare i vari floppy che facevano quel rumore strano, ‘coccodí e coccodé’ (…). Per certi versi il lavoro era molto più lungo, non che fosse in realtà un male. Io ritengo che più ore passi a contatto con una cosa che stai creando e più questa energia si avverte, nella musica, e io lavoro sulle sfumature.
È una buona cosa soffermarsi sui dettagli?
Se non diventa un accanimento sulla rifinitura, sì. Tutto mediamente è più rapido, ora. Come produttore cerco di fare in modo che non sia troppo rapido il processo di produzione, perché a volte le possibilità che hai di scrivere un pezzo o di rendere illusorio che questo sia finito col tuo software musicale, non necessariamente fa bene alla musica. Ci vuole del tempo da passare a contatto con i brani, per acquisirne le sfumature. Inoltre, penso che gli errori siano sempre generativi: possono suggerire prospettive che non avevi considerato. ‘Microchip Temporale’ è la conferma di questo nostro approccio.
Cosa fate maggiormente in the box?
In the box in questo caso (per ‘Microchip Temporale’) ho fatto il missaggio. Perché alla fine con molti artisti abbiamo lavorato nei tempi giusti, con altri è stato come con i compiti delle vacanze e fai le cose all’ultimo. Soprattutto, bisognava integrare le parti, arrangiarle. Io ho sempre voluto che tutti approvassero i passaggi. C’è sempre un grande interscambio in un progetto. Questo lasciava fino all’ultimo che si potessero cambiare delle cose. Se tu incominci un missaggio in digitale, dove lo puoi richiamare, e quindi usare in total recall, ti puoi permettere dopo tante ora di fermati e riprendere il lavoro.
Ad esempio?
Cosmo fino all’ultimo mandava versioni aggiornate e cori alle 3.40 di notte e se avessimo dovuto ogni volta aprire e chiudere il mixaggio analogico la storia sarebbe stata infinita. Dove posso uso una SSL AWS900 per mixare. In fase di registrazione uso molto l’analogico, lo spingo. Cerco subito i colori. Questa cosa non la lascio al mixer. So già cosa voglio ottenere, quindi spingo, saturo, taglio, comprimo. Alla fine, in the box mi trovo un suono già molto definito. E comunque passo tutto all’interno di macchine che lavorano molto il suono.
Come è organizzato il tuo studio?
Il mio studio è piuttosto classico, nel senso che c’è la regia con l’SSL. Ci sono un sacco per amplificatori, chitarre, microfoni d’ambiente, uno panoramico che ho sempre attaccato al soffitto pronto per la ripresa di qualsiasi strumento. È uno spazio non esageratamente grande, è uno studio tradizionale. Addirittura le batterie, ma non in questo album, vengono registrate attraverso un nastro di un registratore 24 piste.
C’è qualche strumento vintage che hai in studio ma non usate più?
Ho un Hammond che mi si rompe sempre. Anche nel brano che abbiamo più stravolto, che è ‘Il Mio Deejay’, sentivamo di poterlo fare senza traumatizzare nessuno: era già un brano modaiolo per l’epoca e che avevamo fatto con Claudio Coccoluto; così abbiamo comunque decisamente cambiato arrangiamento, ci siamo lasciati suggestionare da quelli che sono gli input della scena del nuovo soul e lo abbiamo rifatto con lo spirito di vent’anni fa, nel senso che senso che abbiamo preso quegli input in modo derivativo e li abbiamo metabolizzati usando dei synth analogici, come uno Yamaha e un Pro One. Purtroppo, quando facciamo delle partiture orchestrali, cerchiamo di mescolare gli strumenti di archi veri ma a sto giro non c’è stato il tempo e quindi abbiamo utilizzato una library. Quando ho uno strumento analogico, uso uno strumento analogico. Non c’è paragone.
A proposito di dj, Ninja e Boosta come intervengono in fase di produzione?
Noi qui siamo tutti dj. Io e Ninja abbiamo questo progetto elettronico che si chiama Demonology HiFi che indaga tantissimo tutto quello che si muove non in cassa dritta.
Chi si occupa del mix e del mastering?
Io con Celeste Frigo del mix e del mastering invece Andrea Suriani. Per ‘Microchip Temporale’ ci sarebbe piaciuto richiamare Mike Marsh, che curò ‘Microchip Emozionale’, o Marta Salogni, che lavora a Londra e mi piace tantissimo.
Quale software preferisci usare? E quale hardware?
Usiamo molto Logic e UAD. Uso un Otari 24 tracce per registrare le batterie. Se penso che il primo album lo abbiamo mixato con un Soundcraft Spirit… Poi piano piano abbiamo aggiunto nuova strumentazione e trovato il nostro assetto in studio.
22.01.2020