Siamo stati al roBOt08, festival bolognese che negli ultimi anni ha raggiunto notevoli dimensioni dal punto di vista della quantità di pubblico e dell’importanza culturale che ricopre in città e anche a livello nazionale. Quest’anno era particolarmente atteso, dopo i successi dell’edizione passata, e così abbiamo l’abbiamo seguito con molto entusiasmo. Ecco il nostro report. I testi sono di Alberto Scotti e Irene Papa, con la partecipazione di Elisa Miglionico; video e foto di Alessandro Tanassi e Anna Malagutti aka GOers.

Il warm up del giovedì (Alberto Scotti)
Assente il mercoledì sera, per me roBOt08 inizia giovedì, con gli show di Palazzo Re Enzo. Resto subito colpito dalla location, che ovviamente conoscevo bene, essendo nel centro di Bologna, ma che sotto le luci e l’atmosfera del festival sembra vivere di vita propria. Mi concentro sulla Sala del Podestà: Flako snocciola un set abstract hip hop decisamente godibile, soprattutto visto l’orario e la voglia di polleggio che c’è nell’aria. Un ottimo riscaldamento in attesa di Seven Davis Jr. e di Memoryman. Intanto nella Sala degli Atti vanno in scena Kepler e l’atteso Primitive Art, che non delude le aspetativa. Il tempo di una breve ma sostanziosa cena alla “robot-osteria” (sic) e mi tuffo di nuovo al Podestà per Seven Davis Jr., che attendevo con ansia. Il set purtroppo è inficiato dalla qualità dell’impianto, davvero terribile. Un peccato, perchè il suo show è intrigante e il suo groove ricco e irresistibile. In chiusura, decido di abbandonare Memoryman (sempre a causa del pessimo audio) e ascoltare Chevel. Il suo live ha dei suoni davvero potenti, scolpiti, ben definiti, ma soffre di una certa ripetitività nella costruzione delle tracce, manca un po’ di concretezza nel portare la performance verso una maggiore compiutezza. Insomma, questa prima giornata, se possiamo considerla come un “riscaldamento”, ha portato una buon livello medio degli act in cartellone, con qualche punto meno divertente.
Un venerdì con il freno tirato (Alberto Scotti)
Se il giovedì del roBOt08 era una sorta di warm up per le serate clou del weekend com’è giusto che sia il venerdì si fa sul serio. Agli show di Palazzo Re Enzo si aggiunge la parte “night” Fiere, con molti tra i protagonisti più attesi del festival. Una nutrita pattuglia di italiani apre la serata al Re Enzo: Neunau (particolarmente ricercato e curato il suo set, agli estremi della sperimentazione) in Sala del Podestà, e poi la tripletta Capibara, Godblesscomputers, Populous (un dj set molto divertente) nella Sala degli Atti. I nostri si difendono bene, nonostante l’acustica delle due sale non sia proprio ottimale: al Podestà il suono è allucinante, tremendo, i bassi si disperdono e le frequenze medio-alte saturano “friggendo” nell’aria. Comprendo che non sia facile sonorizzare un luogo simile, ma così è davvero troppo. Va un po’ meglio alla Sala degli Atti, più compatta, dove le basse sono più presenti. Abbandono il campo dopo Powell, diretto verso Bologna Fiere. I padiglioni non sono esattamente una location mozzafiato, e se il sabato il pubblico è abbastanza numeroso da dare un bel colpo d’occhio, il venerdì l’effetto è meno suggestivo. La serata è caratterizzata da una line up molto “scura” varietà di generi del sabato (che ho sinceramente preferito). Squarepusher è inascoltabile. Lo seguo da anni, ne sono un fan, ma non capisco il senso di uno show così estremo in un contesto grande, eterogeneo, in cui le persone vogliono soprattutto ballare. Un’ora di frullatore, senza un accenno melodico, un’armonia, nulla. Mi è parso inutilmente provocatorio. Rispettabile, ma inconcepibile. Va meglio con Ben Ufo e Jackmaster, che vanno sul sicuro con un set dritto e senza fronzoli (anche perché c’era da ridare fiducia al pubblico, decisamente destabilizzato dal live-segheria di cui sopra). Poche concessioni ad aperture e stravaganze varie: semplicemente, techno. Nina Kraviz, in chiusura, è ottima nel leggere la pista e traghettarla dove sa che la gente vorrebbe stare. E poi vince con un classicone come “Age of Love”. Sul Red Bull Music Academy stage è tutto molto duro: Sherwood & Pinch (fanno la loro parte), Evian Christ (molto valido), The Bug (era lecito aspettarsi qualcosina di più). Tracciando un bilancio, una serata un po’ ansiogena, anche se interessante. Altrimenti, non si spiega perché sono rientrato in hotel alle 6.30 di mattina, no?
Allargando il campo a qualche considerazione generale, ci sono limiti e carenze di infrastrutture. Non si è compiuta al 100% quella che viene definita experience, quell’immersione totale dentro l’atmosfera del festival che viene regalata dagli allestimenti, dalla cura del sound, dai servizi extramusicali (bar, ristorazione, svaghi, area chill out), qui trascurati in favore della sola musica. Intendiamoci, ovviamente è la ragione per cui veniamo a ballare o a sentire un concerto; e comunque non sto parlando in termini assolutamente negativi. Ma un festival in forte crescita, con aspirazioni internazionali, non si può permettere di trascurare certi dettagli. E soprattutto, non è ammissibile un suono come quello di Palazzo Re Enzo.
Il sabato ingrana la marcia (Irene Papa; intervento di Elisa MIglionico su Marco Shuttle e Holly Herndon)
La giornata di sabato a Bologna è stata particolarmente produttiva, non soltanto dal punto di vista musicale. Grazie all’offerta culturale della città, ho potuto godere della bella mostra organizzata dallo spazio ONO sulle fotografie scattate da un insospettabile Jeff Bridges nei dietro le quinte dei suoi film. Intanto al Re Enzo si esibiscono gli act più diversi, da Yakamoto Kotzuga a Clap! Clap!, nella stessa situazione sonora un po’ disagio della sera precedente. Il piatto forte dell’intero festival è però servito in Fiera: sui tre palchi allestiti nell’enorme e alienante spazio ai confini del centro, è un susseguirsi di act che mi mandano in estasi per le motivazioni più diverse.
Il set di Marco Shuttle, nell’Outdoor Stage, è uno degli (ormai pochi) percorsi musicali di cui difficilmente ci si dimentica nel giro di poco per l’innata virtù di estraniarti dalla situazione in cui ti trovi. Come recita il suo cognome d’arte, Shuttle, è fatto per stare nello spazio immerso nei suoni più siderali per poi atterrare finalmente dove la techno è più elegante, lontano anni luce dalla Terra. Il sound del dj e produttore di Treviso principia con un ritmo incalzante, mai troppo prepotente o spezzato, con un’omogeneità di stile prettamente techno, con qualche contaminazione dub. Suoni molto strutturati e un’attenzione alla forma e alla manipolazione delle sonorità unica nel suo genere. La première italiana dell’expanded A/V show di Holly Herndon con Colin Self e Mat Dryhurst è ai miei occhi la performance più sorprendente a livello innovativo del main stage. Un’esibizione a tutto tondo: tra teatro, visual art e musica live con voce e strumenti. Oltre a questi ingredienti sul finale infatti trova spazio anche l’ironia quando Holly digita sulla tastiera del PC messaggi in inglese diretti proprio a alle persone in pista. Un dialogo one to one e una vera e propria rottura della parete scenica che fa si che l’artista interagisca almeno per una volta sullo stesso piano con il pubblico sottostante.
Siuriusmodeselektor, definibili per certi versi banali, ripetitivi, uguali a se stessi, risultano sempre incredibilmente sul pezzo con le loro tracce, lasciando che la chiusura del set venga affidata ad uno dei miei brani preferiti di sempre (Berlin). Segue un John Talabot in gran forma sul palco di Red Bull Music Academy, altra garanzia su cui scommettere ad occhi chiusi: la sua selecta è perfetta perché arriva senza mezzi termini alla testa del pubblico, carico ma desideroso di molleggiare ancora un po’ prima di entrare nel clou della festa. Sul main stage sale Tiga subito dopo Trentemoller, che nel frattempo ha ceduto l’onere della chiusura al back to back tra Daphni e Floating Points (scelta rivelatasi azzecatissima). Il produttore canadese si esibisce live, tastiera e vocoder, ricordandomi quante hit ha prodotto da vent’anni a questa parte: inutile ma doveroso menzionare Sunglasses at Night, ma anche un’esplosiva Mind Dimension col suo refrain killer e la vincente Bugatti. Sul palco si porta un tastierista aggiuntivo dall’identità sconosciuta e due mannequin dorate (di plastica) a mo’ di coriste. L’atmosfera è quella di un videotape degli anni ’80, a cavallo tra lusso e decadentismo.
Contemporaneamente Clark fa il suo set, pulito, dritto, senza sbavature, plumbeo e inespugnabile. Non aggiunge particolare carattere a quanto fosse già prevedibile, pur mantenendo il livello altissimo. Del resto, se dopo ti seguono a ruota The Martinez Brothers, devi preparare la folla ad una deflagrazione di house music incontenibile. Cassa dritta of course, ma anche accenni di tribalismo e la giusta dose di appariscenza festaiola. Il gran finale è nelle mani di due menti incredibili: Daphni e Floating Points sono in grado di reggere la pista più dura, quel misto di rimastoni, cultori del genere, avventori della notte ed estimatori di passaggio che alle 5 del mattino si trovano di fronte al bivio tra l’andare a casa o guardare l’alba delle 7. A giudicare dalla quantità di gente rimasta sotto cassa, direi che il bivio si è trasformato in un’unica strada. I due produttori sono stati capaci non solo di mixare perfettamente le loro anime sonore, ma soprattutto di creare un soundscape in grado di traghettare gli ascoltatori da ritmi più soft e disco ad accentazioni rave tipicamente 90s. Una lezione di storia musicale condensata in una manciata di godibilissime ore. Ormai fuori albeggia, il piadinaro, che ci tiene a specificare di essere in attività dal 1986, ha già spiegato le tendine del furgoncino e i fumi della notte mi confondono la testa: il roBOt è stato una figata anche quest’anno. Con molte aree di miglioramento, ma pur sempre una figata tutta made in Italy.
16.10.2015