Precursore di stili e tendenze. Artista trasversale capace di esibirsi in festival reggae, hip hop o house senza alcun tipo di problema. Scopritore e coltivatore di talenti, Andrew Carthy aka Mr Scruff incarna dal 1994, anno del suo debutto in consolle, l’essenza del dj attento ad ogni nuova deriva stilistica e contaminazione di sorta. Un’attenzione ossessiva, nell’accezione positiva del termine, che emerge chiaramente dalla passione con cui ci ha risposto nel corso di questa intervista in vista del suo dj set di stasera, giovedì 8 dicembre, a Torino durante Jazz:Refound Festival.
Ciao Andy, benvenuto su Dj Mag Italia. Vorrei iniziare parlando del tuo ritorno in Italia, nei prossimi giorni in occasione di Jazz:Refound Festival. Quali sono le tue aspettative?
Ciao Matteo, un saluto a tutti coloro che ci stanno leggendo. Sono molto contento di tornare in Italia anche perché in questa occasione si esibiranno alcuni artisti che sono anche e soprattutto amici come LTJ Experience. Io avrò occasione di mettere i dischi dopo il concerto dei Go Go Penguin che conosco personalmente perché anche loro arrivano da Manchester. Non li vedo esibirsi da parecchio tempo a causa dei loro costanti impegni internazionali con il tour e quindi sono felice di potermi unire a loro. E’ la prima volta che sarò coinvolto in un evento di questo tipo e quindi sono curioso di vedere che energia ci sarà.
A tal proposito ti chiedo come prepari i tuoi set prima di un serata o di un festival. Sei un dj noto per l’incredibile collezione di dischi e per un range di stili invidiabile. Che tipo di preparazione c’è dietro dei set così eterogenei, senza scadere nel banale o rischiare che il risultato sia un meltin’ pot poco gradevole?
Sono circa 17 anni che cerco di suonare quasi sempre da solo “all night long” proprio per avere il tempo necessario ad affrontare determinate transizioni stilistiche. Posso suonare due ore di reggae o non suonarne affatto e c’è una cosa che vorrei sottolineare perché ci tengo molto: a volte tra un disco e l’altro può esserci una pausa, un gap e questo non deve essere visto come un errore da parte di un deejay. E’ il disco che ti dice come deve essere suonato. Se un brano ha un finale molto bello è giusto che lo si lasci fino alla fine e poi si metta un disco con un inizio articolato e interessante. Questa ossessione per il mix ad ogni costo produce dj incapaci di rischiare e si sa che solo così si possono ottenere invece risultati degni di nota. Io non preparo mai nel dettaglio il mio set. Sono molto attento ai dischi che ho con me ma ogni dj deve avere la capacità di guardare il dancefloor e trascinarlo verso territori inediti o comunque validi senza cedere alla tentazione di essere ruffiano per “portare a casa la serata”.

Manchester ha avuto indubbiamente una certa rilevanza nello sviluppo della club culture, inglese prima, e internazionale poi. Come questa città ha influenzato il tuo percorso?
Manchester non è una città grandissima però è sempre piena di energia, di situazioni e di fermento artistico. E’ facile imbattersi spesso in persone che si danno da fare per alimentare diverse scene musicali e culturali, inoltre il pubblico prende molto seriamente la qualità di ciò che ascolta in serata. Si tratta di una audience che se è presa bene dà di matto e balla fino ad orari improbabili seguendoti in ogni direzione tu voglia intraprendere. Bisogna considerare che qui c’è una delle più grandi comunità giamaicane dell’intera nazione e questo ha fatto sì che le influenze black, reggae e dub contaminassero prima di altri luoghi la scena club. Infine il fatto che sia una città universitaria permette un costante ricambio generazionale e un confronto tra i giovani che frequentano questo tipo di ambienti. Insomma, la situazione qui è molto interessante e lo è da tantissimi anni.
Sei molto attento alla selezione dei dischi e allo stesso modo lo sei anche quando ti viene proposto di esibirti in back to back con altri artisti. Come scegli le persone che saranno con te in consolle per questo tipo di performance?
Spesso il back to back viene visto come una gara a chi mette la traccia più bella o più apprezzata dal pubblico. In realtà è sempre un discorso di narrazione che però è reso più difficile dal fatto che probabilmente non conoscerai il 90% dei dischi messi dal tuo collega in quel momento. E’ quindi una situazione particolare dove è importante parlarsi e saper lasciare il giusto spazio anche all’altra persona. Io posso mettere un disco, sapere perfettamente quale andrebbe messo dopo, e chiedere all’altro dj di poterlo fare per garantire il miglior risultato possibile stilisticamente, tecnicamente ed emotivamente. Allo stesso modo posso non avere una traccia adatta a seguire quella messa in precedenza da chi mi affianca e lì sono il primo a dire ai miei colleghi di mettere un paio di dischi per trovare il momento migliore in cui poi proseguire. Un approccio che reputo molto noioso è quello di sfidarsi a chi sfoggia più rarità possibili durante un set. Non è un atteggiamento costruttivo e spesso il dancefloor se ne accorge e ti lascia da solo a fare il maestro.
Cambiando argomento, stai ancora lavorando al tuo personale brand di thè?
No, ho seguito il progetto per cinque anni mentre ora collaboro direttamente con un locale a Manchester. E’ stata una buona idea ma purtroppo è impossibile monetizzare in questo tipo di mercato. Ad un certo punto lo sforzo era diventato tale che mi sono detto “Andy, torna a fare il dj a tempo pieno” e così è stato. La definirei un’esperienza divertente ma preferisco concentrarmi su una cosa e farla bene piuttosto che perdermi in tanti progetti e concretizzare poco o niente.
Visto che stiamo andando verso l’anno nuovo qual è l’augurio che fai alla club culture per il 2017?
Il mio augurio è che ci siano sempre meno dj che suonano tutta la notte un solo genere musicale preoccupandosi unicamente del mixaggio perfetto. La musica è il fattore più importante e più siamo disposti a rischiare dietro la consolle, più sarà facile avere un pubblico consapevole e soprattutto divertito e soddisfatto.
07.12.2016