Nemo propheta in patria. Siamo partiti da qui, da questa espressione ancora maledettamente attuale, soprattutto nel mondo della musica di oggi. Guardare oltre i confini italiani per farsi una reputazione è la normalità del business musicale del nostro Paese, soprattutto quando si parla di musica elettronica. Etichette, management, collettivi, festival, eventi: l’estero esercita un grande fascino sui giovani talenti che vivono in Italia. Ma se su questo argomento abbiamo più volte già letto – e scritto – molto, non abbiamo mai pensato di chiedere a una rosa altamente selezionata di diretti interessati che vivono ogni giorno sulla loro pelle “l’essere italiani all’estero”. Abbiamo selezionato dodici giovani produttori italiani – tutti con alle spalle release su grosse label internazionali come OWSLA, mau5trap, Mad Decent, Revealed, Tribal Trap, Spinnin’, Anjunabeats e molte altre – a cui abbiamo chiesto di raccontarci cosa ne pensano di questo e altri fenomeni interessanti e attuali. 7Skies, Aquadrop, Blue Mora, Bottai, Delayers, Kende, Luna, Neve, Phonat, Simon De Jano, SLVR e Wasback (in rigoroso ordine alfabetico) hanno tutti dato voce alle proprie idee e al proprio vissuto senza scadere nella retorica o nelle banalità. Il quadro che dipingono, sincero e appagante, è il risultato di vari percorsi che – sebbene diversi – sono accomunati da una grande passione per la musica. Ne è uscito un approfondimento ricco, sfaccettato e curioso che dà uno sguardo inedito su un mondo in cui quotidianamente siamo immersi ma al quale raramente si guarda da questa prospettiva.

All’estero si lavora meglio che in Italia: luogo comune o grande verità?
La prima domanda è diretta, scomoda: mette da parte la diplomazia andando a toccare il cuore della questione. Il quadro generale sembra essere quello di un’Italia che non riesce a essere competitiva con il resto del continente. SLVR, al momento uno dei nomi più in crescita della scena bass italiana con uscite su Nameless, Universal, Doorn e STMPD RCRDS, ammette che “l’Italia è un mercato di serie B nel mondo della musica elettronica, vuoi per la cultura degli abitanti o per la mentalità di molti addetti ai lavori”. Aquadrop, produttore di casa Mad Decent, rincara la dose ma guarda con ottimismo al futuro: “sebbene il divario si stia pian piano colmando, in generale l’Italia fa sempre la figura dell’Internet Explorer della situazione. Qua si possono ancora proporre copie di pezzi che andavano forte all’estero tre anni fa”. Le lacune, però, non sembrano essere solo di tipo culturale. Il trentino Neve, produttore drum’n’bass con release su Med School e Shogun – nonché founder di The Dreamers Recordings – sottolinea la mancanza di infrastrutture e investimenti adeguati. “All’estero ci sono più agevolazioni economiche, tassazioni e infrastrutture migliori. Qui hanno tutti paura di investire e pensano solo ai ‘big money’ con una tipica italian attitude”, afferma schietto. Il talento bresciano 7Skies, produttore e sound designer con release prestigiose su Anjunabeats e Dim Mak, evidenzia un ecosistema musicale mediamente impoverito, all’interno del quale è difficile emergere: “in Italia prima di tutto mancano le giuste strutture quindi quello tra il nostro Paese e l’estero è un paragone perso in partenza”. Per il piemontese Luna la verità sta nel mezzo: “è un dato di fatto che le entità più influenti del nostro settore non siano in Italia. Questo spinge i giovani produttori a guardare oltre la nostra penisola e a cercare la propria strada altrove prendendo come esempio chi ce l’ha fatta. Questo fa sì che gli addetti italiani ai settori della distribuzione e delle vendite si ritrovino senza materia prima su cui investire, con un effetto debilitante nei confronti del mercato interno”.

Sembra così essersi messo in moto un meccanismo perverso che impedisce alla domanda e all’offerta di incontrarsi. Ma questo problema è risolvibile? Sì, secondo il produttore future pop uscito su Tribal Trap e Swisted Selections. “L’Italia vanta un’ottima squadra a cui, per lavorare bene, manca solo una altrettanto ottima dirigenza capace di creare l’intesa giusta tra i vari reparti”. La pensa in maniera simile Simon De Jano, metà del duo SDJM che, nell’ultimo anno e mezzo, ha conquistato cuore e classifiche di mezzo mondo: “il fatto che all’estero si lavori meglio credo sia solo un grande luogo comune in cui per anni noi italiani ci siamo nascosti per paura di non potercela fare. Nell’ultimo periodo questo stereotipo si sta via via sgretolando in quanto tanti italiani stanno facendo bene su etichette internazionali riuscendo ad alzare notevolmente l’asticella della qualità. Certo, secondo me manca ancora un vero e proprio ‘spirito di squadra’ che contraddistingue olandesi e svedesi. Col tempo spero si possa arrivare anche a questo”. Anche il ventenne Kende – che assieme a Kharfi, Retrohandz, Aquadrop e molti altri fa parte del roster di Doner Music – si concentra sul bicchiere mezzo pieno: “penso sia solo un punto di vista soggettivo, perché se l’etichetta lavora bene ed è organizzata non conta il luogo da cui proviene”. I sammarinesi Delayers, con alle spalle release su Spinnin’, Musical Freedom, Armada, Confession e molte altre, sostengono che “all’estero si è più spesso trattati come ‘guest star’ o comunque come artisti, con più rispetto” ma ricordano che, dal punto di vista del calore espresso dal pubblico, l’Italia non è seconda a nessuno.

Grandi label vs piccole realtà: più grande è l’etichetta, più i tempi di pubblicazione si allungano e i contatti diventano macchinosi, oppure più grande è l’etichetta e migliore è l’organizzazione?
Il pesarese Bottai, di casa Refune, entra a gamba tesa nell’argomento sostenendo che “in generale, più un disco è appetibile e più una label si dà da fare per pubblicarlo e pubblicizzarlo al meglio”. L’osservazione mette in primo piano l’importanza di essere una priorità per gli interlocutori nazionali e internazionali e, di conseguenza, la necessità di avere costantemente ottima musica pronta per soddisfare le orecchie giuste. Molto spesso, tuttavia, il problema più gravoso non è la mancanza di musica ma i tempi lunghi che le etichette impiegano nella gestione degli artisti. Su questo argomento Neve si sbilancia e afferma che l’organizzazione è generalmente migliore nelle realtà più grandi in quanto “si possono permettere un ufficio con del personale, ognuno con il suo ruolo, e fare pianificazioni strutturate per la promozione”. Anche Wasback, piemontese che vanta recenti uscite su Spinnin’, Maxximize e Revealed, osserva i vantaggi di lavorare con grandi organizzazioni: “secondo la mia esperienza, più l’etichetta è grossa e più è organizzata. Non trovo estremamente lunghi né i tempi di pubblicazione né troppo macchinosi i contatti. Il tempo serve alle label per pianificare ogni cosa nel minimo dettaglio in modo che la release sia il più efficiente possibile”. 7Skies aggiunge che i nomi più famosi nella scena hanno ovviamente la priorità “perché vendono di più e perché hanno manager che fanno pressioni per velocizzare i tempi di release dei propri artisti, allungando di conseguenza i tempi di pubblicazione dei nomi meno importanti”.

Il fiorentino Phonat, con alle spalle release su OWSLA, afferma che in certi casi è meglio essere la punta di diamante di un’etichetta piccola o media, che lavora giorno e notte per darti esposizione, piuttosto che avere un album non promosso adeguatamente nel catalogo di una label più grande. Il paragone calcistico è d’obbligo: “è meglio giocare come titolare inamovibile in una squadra di mezza classifica che scaldare la panchina del Real Madrid. Ma se il Real ti dà la maglia n. 10 e le chiavi del centrocampo, la storia cambia”. Ancora 7Skies spezza una lancia a favore delle piccole realtà, da cui dice di essere rimasto colpito: “una cosa positiva che ho notato molto nell’ultimo periodo è la voglia di fare e la professionalità di chi è alle prime armi con la discografia. Questo è un fatto degno di nota perché a volte queste realtà possono offrire un approccio più fresco e innovativo rispetto ai colossi che investono tutto sulla promozione sui social e poco altro”. Questa inclinazione verso realtà di nicchia è attestata anche dai Delayers che osservano come, molto spesso, un team forte e coeso – anche se di una label di piccole dimensioni – può dare valore al prodotto in maniera ottimale. Il credo, se mai ci fosse stato, secondo il quale pubblicare su una grossa etichetta equivale a un successo assicurato sembra essere sfatato. “Non sempre la fama di un’etichetta corrisponde a velocità e ritorno in termini economici e di visibilità, purtroppo. Spesso le label più grosse tendono a lavorare meglio sui loro artisti di punta, dunque può capitare che, pur proponendogli una hit, non abbiano la possibilità di tirarne fuori il giusto potenziale”, ricorda Kende. “Nonostante tutto è comunque molto importante per un artista fare alcune uscite sulle etichette prestigiose”.

La versione originale di questo articolo è apparsa sul n° 81 di DJ MAG Italia.
18.06.2018