Andare a ripescare le hit di Mauro Picotto è troppo comodo. Ci rifiutiamo di passare per dei wikipedisti. Basta googlare il suo nome e dai motori di ricerca emerge un passato fulgido: apparizioni a Top Of The Pops, amicizie con colleghi altolocati, serate infinite a Ibiza, tournée, dischi di platino e oro. Picotto anni fa scrisse addirittura un libro per ripercorrere la propria incredibile carriera. E adesso? Adesso ha abbassato il suo ritmo di vita, l’età avanza, i momenti sono per la famiglia, i figli che danno tante soddisfazioni. Scelte meditate, selezionate, le sue. Le priorità cambiano.
Tuttavia, la verve del dj piemontese, ormai da anni in pianta stabile sull’Isola di Jersey, nello stretto della Manica, non cambia. Istrionico, a tratti caustico quando il taccuino del giornalista è chiuso, Picotto palesa ancora di essere costantemente alla ricerca di sviluppi artistici, collaborazioni, innovazioni, dimostrando sempre di essere padrone di una rara capacità: quella di traghettare l’underground alle masse. Lo ha sempre fatto. Ci prova ora con ‘From The 80s Til Now’, il suo nuovo album, che racchiude perfettamente i suoi gusti e il suo credo musicale.

Mauro, come è nato l’album?
Durante la pandemia non avevo molto da fare e quindi buttavo giù delle tracce, delle idee, dei beat, e ho pensato solo recentemente di pubblicare quelle che mi coinvolgevano di più. C’è un Mauro Picotto anni Novanta ma anche uno contemporaneo e legato al club. A tutto ho aggiunto ‘Meganite Techno (DJ set mix)’, una traccia da 40 minuti di puro… Picotto sound, che è quello che più mi rappresenta.
L’album quanto è club e quanto mainstream?
È maranza dalla traccia 1 alla 11. Attenzione, maranza è un termine per sminuire il pop, che a me piace comunque perché quello leggero, con cui mi avvicino meglio al pubblico. Fatico comunque sempre a trovare il sound facilotto quando si annida nella underground.
Cosa si può considerare nuovo, oggi?
Quello che è vecchio ed è riproposto alle nuove generazioni. La buona minestra riscaldata ma confezionata a nuovo.

Argomento trend topic, l’intelligenza artificiale. Quella usata per produrre musica potrebbe generare del nuovo?
Le nuove tecnologie vanno bene se non ti fai usare ma le usi bene e in modo creativo, e non solo per copiare.
Avevamo riportato su DJ Mag una tua frase pronunciata durante la pandemia che è diventata un mantra per molti: “Non produco tracce per i club perché i club sono chiusi”. Ora che i club sono a pieno regime hai cambiato idea?
Sono tornato a fare anche tracce club perché prima cosa posso testarle live e seconda perché è lì che nascono molte delle nuove intuizioni. Senza però dimenticare le cose più pop per lo streaming. Per me è una questione di pura passione.
Per te è spesso un match: pop dance vs techno. In passato però hai sperimentato anche lounge e chill. Hai mai pensato di spaziare in altri generi?
Fare qualcosa di lontano da me potrebbe essere interessante ma quello che mi manca è il tempo. Il tempo dell’approfondimento, è vero, si trova anche. Ma fare una cosa che potrebbe piacere solo a me, forse non avrebbe senso. Ho sempre fatto produzioni commerciali. Non mi sono mai posto problemi di distinzione di genere musicale. Il produttore che è in me ha un’anima maranza mentre il me dj ha un’anima più club e meno orientata al grande pubblico. Lo si nota da questo album.

Divagazione pop ma d’obbligo. Cesare Cremonini, recentemente, attraverso una storia su Instagram ha detto che oggi un artista è costretto a passare più tempo sui social che in studio perché i modi di comunicare sono infiniti quante le piattaforme a disposizione. Cosa ne pensi?
È una realtà quella che ha fotografato. Personalmente però non perdo troppo tempo sui social, ho di meglio da fare. Oggi sicuramente vende meglio un’immagine forte sul web, di una che non lo è. Poi ognuno fa quello che crede. Incontro dei dj che hanno dietro una equipe pazzesca per autoprodurre video incredibili da sfoggiare sul web. Ma stando sul set con loro e vivendola sovente, mi accorgo che la verità è un’altra. Quella dei filmati è una realtà esaltata, distorta ed enfatizzata per scopi che tutti conosciamo. È più l’immagine stessa che comunichi, che tutto il resto.
È più contenitore che contenuto?
Il web ha accelerato e cambiato questo modo di raccontarsi. Anch’io passavo del tempo su uno yacht a Ibiza ma lo facevo per me e gli amici e non per farmi bello o dire qualcosa ai fan.
Come è nata la collaborazione con Molella?
Volevo fare una versione del suo pezzo più famoso, ‘Freed From Desire’ di Gala, ci siamo sentiti, lui mi ha chiesto invece di fare un brano sfruttando gli elementi del riff di ‘Komodo’ per farne una melodia cantata. Da lì semplicemente è nato tutto. Il Molly ha fatto un ottimo lavoro e così abbiamo pensato a ‘Fly High to Paradise’, a cui seguirà ‘Restless’”.

David Guetta dopo ‘I’m Good (Blue)’, tratto dalla hit degli Eiffel 65, sta promuovendo ‘Baby Don’t Hurt Me’, altra semi cover ‘stavolta ispirata da ‘What is Love’ di Haddaway? Ancora questi anni Novanta? Finirà mai il saccheggio?
Lui e il suo staff sanno che vanno quelle cose lì. Personalmente definire solo dj uno come Guetta è forse ormai sminuente: è una vera pop star e quindi si presta a rappresentare totalmente quello in cui crede. Guetta è forte nel diffondere il valore di certe produzioni. Di nuovo non c’è niente. C’è però l’intenzione di attualizzare cose vecchie. Sicuramente Guetta, a differenza delle produzioni del passato, usa ingredienti di altissima qualità: collaborazioni note, super cantanti, registrazioni in studi di alto profilo. Somme di sinergie che permettono di fare grandi numeri su un mercato che senza questi attributi non darebbe lo stesso risultato.
Anche Calvin Harris rischia di riesumare tutti i fantasmi degli anni Novanta con il suo ultimo singolo?
Qui si parla di mancanza di creatività o di paura di rischiare. Sembra un disco degli anni Novanta, ‘Miracle’, perché in realtà lo è. È lo stesso discorso di Guetta: meglio non rischiare a certi livelli. Se la collaborazione con Dua Lipa per ‘One Kiss’ mi è arrivata bella e nuova, questi ultimi lavori (di Guetta e di Harris), nonostante il successo, per me non hanno molto di nuovo. Nel mio album c’è una traccia, ‘Take Me to Sukuleo’, che a mio avviso è molto piacevole, con una bella armonia e una nuova melodia. Bene, fosse stata presentata da un artista super pop come loro sarebbe anche diventata una hit.
Ti manca non aver fatto un brano come ‘L’Amour Toujours’ o ti basta aver fatto un ‘Komodo’ (ormai anch’esso considerato un evergreen iper campionato)?
In cuor mio, il riff de ‘L’Amour Toujours’ è il proseguo di ‘Komodo’. Gigi ai tempi mi chiese cosa avessi fatto, con ‘Komodo’, soprattutto nel riff. Quindi io mi reputo soddisfatto e realizzato. ‘Komodo’ è stato un punto di partenza. In due ore feci ‘Lizard’, tornando a casa da una serata a Mondovì, poi arrivò ‘Iguana’. Con la nascita di una label come Sacrifice ho cercato di prendere le distanze da una certa BXR. Al Time Warp o all’Awakening dei tempi non potevo certo suonare cose come ‘Komodo’. Oggi è il contrario, a molti festival si sentono dei mischioni pazzeschi perché il dj non propone, piuttosto cerca solo di mostrarsi sul mercato con immediatezza. Per certi dj è più importante essere considerati delle celebrity, che altro.

Deborah De Luca ha remixato ‘Children’. Nina Kraviz, Nastia e tante altre dj suonano techno poi però infilano pezzi trance old skool nel climax dei propri set. Secondo te perché?
Bisognerebbe chiederlo a loro. Forse vogliono far saltare e ballare la gente che, evidentemente, con la sola techno resta ferma. Con la trance old skool chiunque va sul sicuro a livello di energia, euforia e richiamo. Io se vado ad ascoltare Sven Väth, per esempio, ho la garanzia che non mi metterà mai un disco scontato solo per conquistare i presenti. Lui, come pochi altri colleghi, crea vibe con una musica ricercata, musica che ha carattere. Sa come contestualizzare un brano. Molti dj oggi non sanno fare questo. Molti dj sono personaggi pubblici ingabbiati in un compromesso musicale: non rischiano, non osano.
Parliamo di techno. Cosa pensi del mondo Drumcode?
Personalmente, penso sia stata una label culto. Ma negli ultimi 15 anni è diventata una realtà che segue le mode del momento. Di certo non fa nulla di innovativo. Tracce di Drumcode hanno energia ultimamente anche grazie ai bpm sostenuti, suonano molto bene ma mancano di carattere. Noto molta tecnica ma poca ricerca, sembra il suono della vecchia Bonzai, quella di 30 anni fa, stessi concetti ma suoni nuovi. La fuoriserie è cambiata, luccica, è fiammante, però il motore è lo stesso. Da anni ormai molti dj scendono a compromessi sulla produzione. Vogliono fare tutti i fenomeni. I pochi internazionali che secondo me hanno ancora molto da dire sono, come detto, Sven Väth e anche Laurent Garnier. Oggi non ci sono più o sono pochissimi i Coccoluto, che avevano e seguivano un sound identitario.
Si tende a sviare dal contenuto con effetti speciali? È tutto caricaturale?
Sì, con immagini molto belle si tende a… fare del cinema prima di veder ballare le persone. Per carità, tutto oggi è molto scenografico ma la musica così passa in secondo piano. Pochi ballano e molti filmano. Poi però per rivitalizzare la pista si cade nello scontato dei dischi classici. Che smuovono un pubblico rimasto ipnotizzato da altro, da visual prima che dalla musica.
Paul Kalkbrenner disse anni fa che la techno era morta nel 1994. Mettiamo avesse ragione, cosa ha annientato il genere? La tech-house, la melodic techno?
Intanto, Kalkbrenner aveva ragione. È così che saltano fuori nuovi e assurdi generi. Melodic techno, poi: è un termine che è tutta una contraddizione. La techno è sporca, la techno non è melodica, la techno non ha contrasti di forma. La techno della BXR per esempio non era techno, era qualcosa di dance che abbiamo battezzato appositamente Mediterranean Progressive ed era una evoluzione della dream house. Oggi melodic techno è un termine per il marketing di certi personaggi, perché in realtà, e stupidamente, molti dj si vergognano a chiamare quel suono con il suo vero nome: trance.
14.04.2023