“So più cose sugli album che odiavo negli anni ’90 che su quelli che ho amato l’anno scorso”. Qualche giorno fa leggendo un articolo mi sono imbattuto in questa frase e ci ho ragionato un po’. L’ho immediatamente collegata ad un altro pensiero su cui riflettevo qualche tempo fa: è colpa mia se ultimamente faccio più fatica del solito a ricordare titoli di brani, album e artisti? Leggendo qualche statistica, a quanto pare no. Perlomeno non sono il solo.
I punti di partenza sono due: non è mai uscita così tanta musica; dal 2016 la ascoltiamo principalmente in streaming. Nel primo caso, parlano i dati. Secondo un report di Spotify, nel 2019 sono stati aggiunti alla piattaforma oltre 40.000 brani al giorno, il doppio rispetto al 2018 e per un totale di oltre 14 milioni di tracce all’anno. Se da una parte è vero che nell’ultimo decennio pubblicare (e fare) musica è diventato più facile, dall’altra questo incremento è principalmente da ricondursi principalmente alla bassissima soglia di attenzione del pubblico, costantemente bombardato da nuovi input musicali da ogni direzione, dai social alle piattaforme streaming. C’è poi da considerare il guadagno economico, che nel 2020 per gli artisti vuol dire andare in tour, e questa necessità si soddisfa con una media di un album all’anno, perlomeno per la maggior parte delle star nel circuito major. A questi si aggiungono le bonus track, le collaborazioni, i singoli stagionali sparsi qua e là. Nel 2017, ad esempio, il gruppo dei BROCKHAMPTON ha pubblicato tre album in un anno. Il rapper americano Lil Uzi Vert nel 2020 ha pubblicato un album diviso in due parti e ha da poco annunciato un progetto collaborativo con Young Thug in arrivo entro l’anno.
Un paio di mesi fa Dr. Dre diceva che “i social media hanno distrutto la mistica dell’attesa dell’artista”. Quel lasso di tempo che trascorreva tra l’uscita di un progetto e il successivo, con il fisiologico ciclo dei due anni, era parte integrante della mitizzazione della release, e veniva dedicata all’approfondimento delle tematiche degli album – dove possibile – e a inevitabilmente insaporire ancora di più l’uscita di un nuovo progetto del nostro artista preferito. E qui si torna alla prima frase dell’articolo. Oggi però la distrazione cronica del pubblico vuole che l’obiettivo primario sia restare in mente a tutti i costi. L’overload di release nasce anche dai nuovi schemi dell’industria musicale, oggi veicolata anche dal potere dei playlist curator di Spotify, Apple Music e compagnia. Popolare con proprio materiale le playlist ufficiali oggi equivale ad una heavy rotation radiofonica, e regala quello stesso riflettore che un ventennio fa poteva avere esclusivamente un passaggio su una radio nazionale, su MTV e via dicendo. Ciò che conta è quindi restare lì, e non uscire mai del tutto dal radar della tua fanbase. Per lo stesso motivo, il valore di un album oggi rispetto a venti anni fa è ben diverso.
La rapidità con cui album, mixtape ed EP vengono consumati comporta delle conseguenze: riuscire a dare permanenza al progetto di un LP è possibile solo nel caso di veri e propri capolavori. Se prendiamo ad esempio la musica italiana, nell’ultimo anno di l’unico ad esserci riuscito sembra essere Marracash con ‘Persona’: un progetto sentito e studiato, che guarda caso viene da un lungo stop lontano dai riflettori e che ancora oggi, a diversi mesi dall’uscita, è nella Top 10 della FIMI. Tanti altri album arrivati in vetta sono riusciti a restarci qualche settimana nella migliore delle ipotesi, e lo stesso discorso vale per la Top 10 di Spotify. Lo schema è sempre lo stesso: esce il mixtape di un rapper, conquista le prime cinque o sei posizioni e la settimana successiva la presenza è già dimezzata. Tempo qualche settimana ed è fuori dalle prime dieci posizioni. Il problema non è la musica, ma la voracità con cui viene consumata. Non migliora la situazione il CEO di Spotify, Daniel Ek, che in un’intervista per Music Ally ha detto che “non è abbastanza fare un disco ogni 3 o 4 anni” aggiungendo che chi non fa buoni risultati economici con lo streaming è colui che si ostina a “continuare a pubblicare musica come si faceva in passato”. Insomma, “conta mantenere un dialogo tra artista e fan”. Tanti gli artisti che hanno storto il naso leggendo queste parole. Se da una parte lo streaming ha salvato i bilanci dell’industria musicale (anche qui parlano i numeri) da un’altra è ben chiara la deriva usa-e-getta che stiano assumendo sempre di più. Però che fai, boicotti Spotify? Buona fortuna. Qualcuno ha detto che Daniel Ek evidentemente non sa distinguere un’opera d’arte da un prodotto commerciale.

C’è poi un discorso di gap generazionale: se da una parte le varie piattaforme propongono in continuazione nuovi brani e nuovi artisti, dall’altra i dati dicono che è sempre più difficile uscire dalla propria bolla musicale, in cui gli algoritmi sono addestrati per tenerci il più possibile nella nostra cameretta personalizzata. Questo comporta che se un tempo accedere alla musica delle generazioni precedenti era un processo più naturale – ad esempio con i dischi dei nostri genitori che si trovavano in casa – oggi è un po’ più complicato, perchè la tendenza all’ascolto usa-e-getta spinge il pubblico a rivolgersi a playlist pre-confezionate ed educate sugli ascolti abituali che assecondano il più possibile la pigrizia del non approfondimento. Non a caso, come evidenzia bene un interessante articolo del New York Times, spopolano su Tik Tok e Youtube i video a tema first reaction, in cui giovanissimi youtuber ascoltano per la prima volta i dischi storici delle generazioni precedenti. Insomma, nonostante la quantità impressionante di nuova musica che esce ogni giorno, lo spettro d’ascolto del pubblico è sempre più limitato. Abbiamo bisogno di così tanta musica? Sicuramente abbiamo bisogno di ascoltarla di più. Nel senso meno 2020 possibile del termine, si intende.
25.08.2020