• MERCOLEDì 29 MARZO 2023
Interviste

Parla Alberto Fumagalli, il boss di Nameless

 

Alberto Fumagalli è l’ideatore e il direttore di Nameless Music Festival, e in una lunga ed esauriente intervista ci racconta tutto ciò che volevate sapere su Nameless ma non avete mai osato chiedere. Nameless Music Festival appare oggi come una realtà consolidata nel panorama nazionale e gode di ampia considerazione anche al di fuori dell’Italia, sia tra il pubblico sia tra chi si occupa di musica dance (radio, stampa e web, agenzie di booking). Eppure solo cinque anni fa non esisteva. E nei primi due, tre anni di vita ha dovuto combattere contro alcuni dei soliti pregiudizi: un festival amatoriale, piccolo, fatto da dilettanti, che non può funzionare in Italia, e che ha la sfacciataggine di non rivolgersi all’affettato pubblico ultracool presenzialista ma di scendere in campo con le stesse velleità dei grandi festival popolari, quelli dell’EDM, dei sorrisi, dei coriandoli, dei laser e dei drop che fanno alzare le mani al cielo. Alberto Fumagalli e la sua squadra sono riusciti invece a ribaltare il pregiudizio, talvolta anche quello del pubblico, che a parità di line up preferiva andare tre giorni all’estero e ora ha come prima scelta la meta di Barzio, in provincia di Lecco. Da una timida serata con Steve Aoki sono il diluvio a tre giorni (più uno con i Chemical Brothers) dove i protagonisti sono Axwell^Ingrosso, Afrojack, Jauz, Zedd, Alan Walker. E tante promesse italiane. L’intervista che state per leggere è molto interessante, perché Alberto rivela a racconta con grande passione il suo mestiere, una professione spesso poco chiara anche a chi vive questo mondo. E dunque, un’ottima occasione per capire come si configura e si muove la macchina organizzativa come quella di un festival dalle grandi ambizioni.

 

 

La prima domanda che ti faccio può sembrare ovvia ma è necessaria: come ti è venuto in mente di fare un festival EDM in provincia di Lecco? Da dove è nata l’idea e da dove è partito tutto?
Faccio una breve premessa in cui devo parlare della mia storia: io organizzo eventi da quando avevo quindici anni, a casa mia, a Castello di Brianza, un paesino sperduto. Ho iniziato con le feste di compleanno dei miei amici e con lo stesso entusiasmo e la testa piena di sogni, arrivato ai diciotto ho cominciato a desiderare feste con dei dj ospiti. Il primo evento importante fu nel 2003, riuscii a farmi dare il campo da calcio del paese dal parroco per organizzare un concerto con DJ Ross, Erika e Magic Box. E da lì non ho più smesso, dopo diversi eventi del genere mi sono ritrovato a ricoprire il ruolo di art director di qualche club tra la Brianza e la provincia di Lecco. Sono andato avanti così per anni, finché iniziando a viaggiare mi sono reso conto della portata dei festival e delle realtà musicali internazionali, di come queste organizzazioni riuscissero a valorizzare i propri brand e di come la musica fosse al centro dei loro eventi. E ho capito che avrei voluto spostarmi verso questo tipo di attività, lasciando da parte i club.

Così hai iniziato a pensare a Nameless…
No. Prima mi sono concentrato sull’evento di Capodanno a Bormio, che esiste tutt’ora e funziona molto bene. Poi ho avuto altre esperienze simili che mi hanno portato nel 2012 a gestire il primo evento in cui la licenza e le responsabilità erano interamente a mio carico, e nel 2013 al primo Nameless Music Festival.

Dicevi che hai iniziato a quindici anni. Quanti ne hai oggi?
Quest’anno sono trentuno.

Ok. Praticamente metà della tua vita l’hai spesa lavorando in questo settore. Non hai mai fatto altri lavori?
Ho sempre avuto un altro “primo lavoro”, ne ho fatti diversi. L’organizzazione di eventi, pur essendo una vera professione, da sola non mi garantiva entrate adeguate.

 

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Nel 2013 arrivi al primo Nameless e immagino sia stata una svolta.
Non proprio. Fu un’edizione disastrosa, c’era Steve Aoki e perdemmo un sacco di soldi. Andò malissimo sia a causa di un vero diluvio che durò tutto il giorno, sia per tutte le ragioni che un principiante può sottovalutare, per cui alcune variabili di cui tieni poco conto o che non immagini rilevanti fanno invece sentire tutto il loro peso. Per esempio, il comune ci concesse uno spazio ma ce lo cambiò a un mese dall’evento, e quindi tutta l’organizzazione andava ripensata e riconfigurata in poche settimane, giusto per dirne una.

Secondo te venne poca gente perché non vi conoscevano o perché diluviava?
Entrambe le cose. La pioggia non aiutò, ma la verità era che nessuno ci conosceva, perciò non bastava il nome di Steve Aoki, serviva un marchio in cui riconoscersi e avere fiducia, serviva una promozione adeguata, una garanzia di qualità.

E quali sono i fattori che hanno fatto la differenza tra voi e tanti eventi del genere che in Italia, soprattutto qualche anno fa, ci hanno provato, sulla scia dei grandi festival internazionali, con risultati catastrofici?
Secondo me i fattori principali sono due: una location non convenzionale, che all’inizio poteva essere un punto sfavorevole e invece nel tempo è diventata un valore aggiunto del festival, perché ci troviamo in una valle in mezzo alla natura e in un posto davvero rilassante, ma ben servito a 40 km da Milano e in una regione come la Lombardia, popolosa, ricca, moderna e funzionale. L’altro fattore è il più importante, l’avrai già immaginato dalle mie parole di poco fa: dal disastro della prima edizione abbiamo imparato una lezione fondamentale. Non importa quale sia la tua line up, l’obiettivo dev’essere prima di tutto fare in modo che il tuo nome, il tuo marchio siano ciò in cui il tuo pubblico si riconosce. Devono sapere e avere ben radicata la convinzione che al Nameless ci si diverte, si sta bene, è un festival figo a prescindere da chi si esibirà, perché l’esperienza vale comunque la pena di essere vissuta e perché la line up sarà sicuramente di qualità, sempre, ma questa condizione arriva addirittura in secondo luogo. Quella che si chiama “brand identity”.

È stata questa la vera svolta?
Sì, certo. Al 100%. È il fattore che ha cambiato tutto. Già dalla seconda edizione nel 2014 abbiamo iniziato a lavorare con questa mentalità, pensando che i ragazzi avrebbero dovuto venire al Namless Music Festival perché sarebbe stato figo, un’esperienza in sè, e non perché, o non solo perché, ci fosse Steve Aoki, Axwell ^ Ingrosso o chiunque altro. Dal 2015 poi ci siamo spostati a Barzio e questa nuova location ha dato ulteriore slancio al successo del festival, e i numeri parlano chiaro: da quando siamo qui abbiamo avuto una crescita esponenziale.

 

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Mi sento di dire che dal 2015 siete sulla mappa internazionale dei festival rilevanti.
Io direi dall’anno scorso, dal 2016, è lì che abbiamo avuto tante conferme. Dico una cosa, ti prego di non prederla come una spacconata ma come “termometro”, ed è motivo di orgoglio per noi: tempo fa durante un meeting con un’importante agenzia olandese ci hanno mostrato un prospetto in cui avevamo un rating prioritario per loro e per i loro artisti durante il weekend in cui si svolge Nameless. Ne siamo entusiasti perché il nostro è un festival ancora giovane e molto più piccolo di altri che si svolgono durante lo stesso weekend, consolidati e in territori più “sicuri” per affluenza di pubblico e tradizione. Per noi questo indicatore dice tantissimo.

Come si relazionano gli artisti e le agenzie con voi? Come siete riusciti per esempio a chiudere i primi accordi con i grandi ospiti?
Con un gran c… fortuna! Conta che solo tre, quattro anni fa eravamo davvero gli ultimi ad essere presi in considerazione, com’è giusto che sia: il contratto di Steve Aoki era stato firmato il primo maggio, le NERVO l’anno dopo ad aprile inoltrato. In genere si parla di mesi di anticipo. Ma grazie alla nostra caparbietà e tenacia siamo stati abili nell’ottenere fiducia e credibilità dove all’inizio c’era una sana e normale diffidenza. Le agenzie devono badare all’interesse del proprio artista, quando non sei nessuno avere voce in capitolo non è semplice.

Da qui nasce una considerazione: al netto di queste note molto positive, la mia impressione è che siate arrivati sulla scena già all’apice del grande successo dell’EDM e del suo immaginario, cioè i super festival con i grandi stage, gli effetti speciali e tutto questo tipo di meccanismi. Suppongo che molti artisti siano desiderati e opzionati con richieste prioritarie da festival che hanno storia, economia e potere contrattuale. Come si fa a non essere sempre quelli che inseguono, ma a capire invece chi tenere in considerazione tra i nomi ormai “classici” e affiancare una line up che sia innovativa per artisti e generi portati in scena?
Io credo che i nomi e i generi nuovi, per quanto il mondo corra veloce, non riescono ancora a soppiantare la vecchia EDM nell’immaginario collettivo, almeno con la forza con cui questa era penetrata nei cuori dei fan qualche anno fa. Di conseguenza i grandi classici, per un po’ di tempo ancora, saranno i protagonisti principali di oggi. Dobbiamo confrontarci sempre con loro come headliner, e intorno a questa ossatura costruire il rinnovamento attraverso una programmazione che preveda nomi nuovi, tanto scouting su chi può essere una scommessa vincente anno dopo anno.

Chi si occupa di questo scouting?
Io, Federico Cirillo e Giammarco Ibatici, in prima battuta lavoriamo partendo dai nostri gusti personali e poi scremiamo e discutiamo i nomi inseriti nella prima ipotetica line up andando incontro al gusto del pubblico. Cosa può funzionare? Chi sta crescendo? Chi secondo noi è un artista di qualità? L’obiettivo nei prossimi anni è fare in modo che il festival venga sempre più percepito come “pop”, lo noti facilmente se metti a confronto le line up delle varie edizioni, lo spostamento è in quella direzione.

Vi piacerebbe proporre anche artisti pop, magari italiani?
Questo non lo so, di sicuro un esperimento in questo senso è l’Arc Stage con gli artisti hip hop, perché in qualche modo rappresentano un genere molto “nazional-popolare” in questo momento. Più che sconfinare verso il pop mi piacerebbe rivedere in scena una dance italiana pop, non intendo la vecchia guardia degli anni ’90 perché sarebbe revival, ma quel tipo di mentalità e di attitudine applicate alla dance di oggi.

 

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Parlando proprio di scena dance italiana, mi pare che stiate coltivando un rapporto stretto con tanti artisti emergenti del panorama nazionale. Mi sbaglio?
No, anzi. In realtà il rapporto è positivo ma mi dispiace che spesso da fuori ciò venga percepito come una sorta di circolo vizioso per cui se un artista esce su Nameless Records e ha un certo booking allora automaticamente suona al festival. Non è così.

Ma scusa, se anche fosse non vedo cosa ci sia di male. All’estero hanno costruito la fortuna e la continuità di artisti e label su questo sistema. Mi sembra normale che si cerchi ci creare una filiera.
Certo. Ma non è solo così, ci sono diversi nomi tra gli emergenti che suonano al Nameless senza essere della nostra cerchia.

Chi ti entusiasma tra i giovani?
Guarda, in questo momento credo che la figura del dj e quella del producer stiano tornando a scindersi in modo netto. Sul versante della produzioni, e anche della coolness, ci sono SLVR, Not For Us, Marble, Faith. Se invece vuoi dei nomi che mi fanno divertire come dj, non posso non pensare a PRZI, Reebs e soprattutto a EDMmaro. Loro sono capaci di suonare, di fare i dj, di trascinare la pista quando generalmente se non suoni solo ciò che conoscono non ti segue.

Perché non ti segue?
Perché siamo in un momento statico per la dance, senza hit. Non c’è una ‘Levels’ ma nemmeno una ‘Lean On’ che dettano la via.

Parliamo di EDMmaro. Perché non ha uno slot più significativo? Io l’avrei inserito in un orario proprio da pre-headliner.
Hai ragione. Forse non abbiamo avuto abbastanza coraggio. Però ci crediamo molto, il suo è un progetto originale, è divertentissimo e si distingue da tutto ciò che c’è in giro. Al netto dei mash up trash. Se anche non suonasse le traslate sarebbe forte comunque. Sa come far divertire le persone.

Tra gli italiani consolidati invece chi sono i tuoi preferiti?
Merk & Kremont, sicuramente. Anche perché sono i nostri alfieri, sempre presenti al festival. Ma non lo dico per questo: sono completi, hanno esperienza, hanno i pezzi, sanno lavorare in studio (per sé e per altri), sono dei bravi dj, stanno intrattenere. Sono degli artisti completi e dal profilo internazionale.

 

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Albi Scotti
Giornalista di DJ Mag Italia e responsabile dei contenuti web della rivista. DJ. Speaker e autore radiofonico.

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